
INFORMAUTISMO N° 7 - ANNO 2004, gennaio-aprile
Problematiche contemporanee sui modelli di intervento per i disturbi dello spettro autistico. (dal Journal of the Association for persons with severe handicap , 1999, traduzione di Giacomo Vivanti)(di B. Prizant, E. Rubin)
PRETESE DI EFFICACIA
Come punto di partenza, prenderemo brevemente in considerazione il tema dell’efficacia dei differenti approcci d’intervento destinati ai soggetti con disturbi dello spettro autistico (DSA). Si tratta, crediamo, di un tema centrale: esso infatti alimenta i dibattiti e le discussioni sulla selezione delle pratiche d’intervento ottimali, ed è spesso terreno di scontri che interessano tanto i professionisti coinvolti nel trattamento quanto le famiglie (per ulteriori dettagli, si veda Prizant, Wetherby, 1998).
Allo stato attuale, l’approccio ABA (Applied Behavioral Analysis, analisi comportamentale applicata) è l’unico approccio d’intervento (o categoria di approcci) di cui i proponenti abbiano avanzato pretese dirette di superiorità rispetto agli altri approcci (Green, 1996b; Smith, 1996). Si tratta inoltre del solo approccio che ha visto gli autori riportare la “guarigione” come un possibile esito evolutivo dell’intervento per una significativa proporzione dei bambini trattati (Green, 1996b), sulla base dell’indagine sugli esiti del trattamento condotta da McEachin, Smith e Lovaas (1993) .
Di fatto, il termine “guarigione” è stato chiamato in causa dai sostenitori dell’ABA il cui approccio è strettamente basato sull’apprendimento per prove a tavolino, (modello che definiamo come “approccio comportamentale classico”, in quanto coerente con le prime pratiche d’intervento ABA, [Lovaas, 1981], nonostante questo modello abbia conosciuto significativi cambiamenti negli ultimi venti anni [Prizant, Wetherby, 1998]). Va messo in evidenza che i sostenitori dell’ABA contemporaneo, un approccio che attinge a molti principi e pratiche propri dei modelli evolutivi e sociali-pragmatici, non chiamano in causa né pretese di superiorità né parlano di “guarigione” (Koegel, Koegel, Harower, Carter, 1999; McGee, Morrier, Daly, 1999).
Sulla base di un’analisi delle pubblicazioni relative alle ricerche in quest’ambito, Prizant e Wetherby (1998) concludono che è prematuro e fuorviante parlare di superiorità dell’ efficacia di un approccio rispetto ad altri, per molte ragioni:
- La ricerca ha documentato l’efficacia di un range di approcci che differiscono sia sul piano teorico che su quello delle pratiche d’intervento. (per una rassegna, si vedano Dawson, Osterling, 1997, e Rogers, 1996). Gli studi sugli esiti a lungo termine (Gresspan, Wieder, 1997b; McEachin et al., 1993) e a breve termine (Ozonoff, Cathcart, 1998;
Rogers, Lewis, 1989; Sheinkopf, Siegel, 1998) documentano l’efficacia di approcci basati su filosofie e pratiche differenti.
- Non si hanno prove che possano stabilire la superiorità di un approccio rispetto agli altri. (Dawson, Osterling, 1997; Sheinkopf, Siegel, 1998). Non esistono studi che mettano a confronto l’efficacia di due o più approcci attraverso l’assegnazione casuale dei soggetti ad un gruppo sperimentale e a un gruppo di controllo, condizione necessaria per effettuare confronti diretti.
- Nessun approccio è efficace allo stesso modo per tutti i bambini trattati. Nessuno studio documenta benefici analoghi per tutti i bambini trattati con un determinato approccio (Dawson, Osterling, 1997; Rogers, 1996). I due studi che hanno ricevuto la maggiore attenzione negli ultimi anni (Greenspan, Wieder, 1997b; McEachin et al., 1993) hanno riportato esiti favorevoli rispettivamente per il 58% e per il 47% dei casi trattati.
- Le ricerche disponibili soffrono di imperfezioni metodologiche. Questi studi sugli esiti e sull’efficacia dei trattamenti sono stati criticati per problemi significativi nella predisposizione del disegno di ricerca, nella selezione dei soggetti, nelle misure scelte come indicatori degli esiti, e nell’interpretazione dei risultati (Green, 1996b; Greespan, Wieder, 1997b;Gresham, MacMillian, 1997, 1998).
- Gli studi condotti finora hanno preso in analisi solo gli esiti e le variabili relative al bambino. Le variabili relative alla famiglia, considerate variabili critiche nella ricerca sui risultati dell’intervento precoce, sono state trascurate nella ricerca sui bambini con DSA (Gresham, MacMillian, 1997; Prizant, Wetherby, 1998). Ci riferiamo a indicatori come la struttura famigliare (numero di genitori e parenti coinvolti direttamente nell’assistenza al bambino, e le variabili relative al numero, l’età e l’ordine di nascita dei fratelli), lo status socio-economico, il livello d’istruzione e l’occupazione dei genitori, l’accesso a risorse sociali formali ed informali (come la partecipazione dei genitori a gruppi di auto-aiuto, il supporto della famiglia allargata, il coinvolgimento in comunità religiose) e i fattori di stress aggiuntivo all’interno della famiglia.
- La ricerca sull’efficacia degli interventi precoci rivolti a un ampio campione di bambini colpiti da diversi tipi di disabilità (Shonkoff, Hauser-Cram, Krauss, Upshur, 1992) ha dimostrato che le variabili relative alla famiglia sono i migliori predittori dell’esito dell’intervento precoce. Ciò nonostante, l’impatto delle variabili familiari non è stato considerato nella ricerca condotta nell’ambito dei bambini con DSA (Greenspan, Wieder, 1997a; McEachin, et al., 1993).
- Non c’è consenso sul grado di “intensità” che deve essere prevista nell’intervento. Due fattori che sono stati associati ad esiti più positivi sono la precocità e l’”intensità” dell’intervento (Green, 1996b; Greenspan, Wieder, 1997 a). Tuttavia, non è stato raggiunto un accordo e vi è stato scarso dibattito sulla quantificazione di questa intensità, come anche sulla definizione di un “periodo critico” per l’inizio del trattamento.
Riguardo all’efficacia del trattamento, i ricercatori hanno dibattuto se “l’intensità” dei servizi (tipicamente definita in numero di ore d’intervento alla settimana) sia la variabile cruciale correlata ad esiti migliori indipendentemente dalla natura dell’intervento previsto (Dawson, Osterling, 1997; Greespan, Wieder, 1997b). Come già notato, è molto probabile che altre variabili, come la struttura familiare, le risorse e il supporto siano più critiche perché sono quelle che permettono ad alcune famiglie di mettere in atto interventi più impegnativi e “intensivi ”.
- Vi è una notevole sovrapposizione tra approcci che fanno riferimento a diverse filosofie e a diverse strategie applicative. Se sottoposti ad un’analisi dei suoi elementi fondamentali, alcuni approcci ABA contemporanei (L.K. Koegel, Koegel, Harrower et al., 1999; McGee et al., 1999) condividono molti aspetti con gli approcci evolutivi (Greenspan, Wieder, 1999; Prizant, Wheterby, Rydell, in stampa) come anche con gli approcci ABA tradizionali, più basati su strategie “dirette dall’ insegnante” (Anderson, Romancyzk, 1999; Anderson, Taras, O’Malley Cannon, 1996; Green, 1996 a).
- Tipicamente la fedeltà del trattamento non è stata misurata. Quando si opera un confronto tra due o più approcci, è essenziale definire le caratteristiche e le procedure di ogni specifico approccio, la durata prevista per quello specifico intervento, e se le procedure previste vengono seguite in modo fedele e attendibile (la fedeltà del trattamento).
Si tratta di un aspetto cruciale, in quanto l’attribuzione di un cambiamento significativo all’implementazione di uno specifico protocollo d’intervento e non ad altre variabili è un tema centrale nel dibattito sull’efficacia. La nostra esperienza ci mostra che in molti casi l’attribuzione di una particolare etichetta ad un approccio (ad esempio approccio ABA vs approcci evolutivi) possa riflettere maggiormente la “scuola di pensiero” o l’influenza culturale dell’operatore, del ricercatore o del clinico coinvolto nell’implementazione rispetto a quello che avviene realmente nella pratica effettiva del trattamento. Per esempio, chi scrive ha recentemente osservato un bambino inserito in uno studio sul “metodo Lovaas” su cui l’intervento, osservato in due diverse sessioni, era molto più simile alle caratteristiche dell’ approccio evolutivo, individualizzato e basato sulla relazione creato da Greenspan e Wieder che al “metodo Lovaas”.
Pertanto la questione della fedeltà dell’approccio si fa estremamente complessa, sia concettualmente che metodologicamente, quando gli approcci si fanno più individualizzati e si ispirano ad una più ampia cornice teorica, una tendenza sostenuta da noi e da altri (Greespan, Wieder, 1997b, Prizant, Whetherby, 1989; Strain, McConnell, Carta, Fowler, Neisworthm, Wolery, 1992).
- Gli studi non hanno documentato né tenuto in conto le variabili esterne alle procedure del trattamento che era oggetto di analisi. La ricerca sui risultati dei trattamenti ha ignorato la qualità e la natura delle esperienze di apprendimento non comprese nel cosIddetto “pacchetto del trattamento” e il loro possibile ruolo nei cambiamenti evolutivi osservati. Ad esempio, parliamo delle famiglie di ogni parte degli USA che attribuiscono i progressi dei loro figli ad una particolare terapia (ad esempio, l’ABA) e allo stesso tempo svolgono regolarmente con i bambini attività di gioco e organizzano attività di logoterapia, integrazione sensoriale, attività sociali con altri bambini e così via.
Di fatto, la nostra esperienza ci suggerisce che è molto più comune osservare bambini coinvolti allo stesso tempo in diversi interventi e attività che riflettono una varietà di approcci e offrono una varietà di opportunità di apprendimento e di partners sociali piuttosto che un singolo intervento.
In queste circostanze, è spesso difficile stabilire se un miglioramento sia attribuibile ad uno specifico intervento, ad altri eventi della vita o all’interazione tra queste diverse influenza. Questo problema costituisce uno dei più grandi limiti presenti nelle ricerche sugli esiti dei trattamenti attualmente disponibili.
CRITERI DI BUONA PRATICA
Sulla base delle problematiche e delle evidenze messe in rilievo precedentemente, riteniamo di non poter dare credito alla pretesa superiorità di nessuno specifico programma d’intervento. Detto questo passiamo a discutere quali sono gli elementi che riteniamo debbano caratterizzare ogni tipo di trattamento proposto ai bambini con DSA, con riferimento agli specifici approcci già discussi in questo scritto.
Il programma d’intervento dovrebbe essere individualizzato e cucito su misura sull’attuale livello di sviluppo del bambino e sul suo profilo di punti di forza e punti deboli nelle abilità di apprendimento.
D’accordo con Greenspan e Wieder, riteniamo che, benchè la maggior parte dei bambini con DSA presentino gli stessi problemi di sviluppo nelle aree della reciprocità sociale ed emotiva, della comunicazione, della cognizione e dello sviluppo senso-motorio, questa popolazione sia caratterizzata da una considerevole eterogeneità.
E’ essenziale ricordare che i disturbi dello spettro autistico non sono patologie in cui la causa e i sintomi sono omogenei in tutti i soggetti che ne sono colpiti. Allo stesso modo le famiglie dei bambini con DSA variano rispetto alle risorse che hanno a disposizione, al livello culturale e così via.
Per questo il programma d’intervento dovrebbe essere individualizzato e cucito su misura sull’attuale livello di sviluppo del bambino e sul suo profilo di punti di forza e punti deboli nelle abilità di apprendimento, e adattarsi inoltre alle priorità della famiglia, proponendo delle modalità d’azione compatibili con la “cultura” e lo stile di vita della famiglia. Questo significa determinare obiettivi d’intervento appropriati ed operare una selezione tra le strategie d’intervento in grado di portarli a termine (scegliendo ad esempio tra sessioni di apprendimento al tavolino e approcci basati sul gioco libero come il
“ floor time” ). Su questo tema, Greenspan e Wieder riconoscono che i bambini con DSA variano molto nella capacità di organizzare il proprio comportamento e in quella di accedere a informazioni da ogni modalità sensoriale (visiva, uditiva, tattile, vestibolare).
Per questo, il loro modello d’intervento delinea una cornice di riferimento che prevede supporti ambientali individualizzati per promuovere l’acquisizione di abilità evolutive centrali. Ad esempio essi sostengono il coinvolgimento di un terapista occupazionale con conoscenze nell’ambito delle strategie di integrazione sensoriale per promuovere nel bambino stati ottimali di attenzione, arousal e regolazione emotiva. Il supporto necessario a raggiungere questi obiettivi può essere molto diverso in ciascun bambino (Anzalone, Williamson, in corso di stampa; Fallon, Mauer, Neukrich, 1994).
E’ nostra convinzione che gli approcci che sono limitati nella pratica ad uno o due modalità d’intervento (ad esempio basati in gran parte sull’apprendimento incidentale o sulla logoterapia) rischiano fortemente di ignorare significative esigenze evolutive di alcuni bambini (come ad esempio l’integrazione sensoriale [Anzalone, Williamson, in corso di stampa], o l’apprendimento di sistemi comunicativi non-verbali come modalità aggiuntiva o alternativa al linguaggio in casi limitazioni cognitive o motorie [Mirenda, Erickson, in corso di stampa]).
Storicamente, l’approccio ABA tradizionale prevede la medesima sequenza di obiettivi e strategie d’intervento e si basa sull’apprendimento tramite prove discrete, soprattutto nelle prime fasi d’intervento (Lovaas, 1981). Tuttavia si osserva una crescente consapevolezza dell’importanza dell’individualizzazione del programma nella scelta degli obiettivi (Anderson, Romanczyk, 1999).
D’altro canto l’individualizzazione delle strategie d’intervento sulla base del profilo presentato dal soggetto nelle diverse aree evolutive (comunicativa, cognitiva, sociale, senso-motoria) non sembra altrettanto accolta e messa in atto. Alcuni sostenitori dell’ABA tradizionale (ad esempio Green, 1996a, 1996b) ritengono che la scelta di una strategia d’intervento dovrebbe essere presa solo dopo che i risultati emersi dalla ricerca empirica siano replicati in più soggetti. Il rischio insito nell’adesione a questo criterio è che la continuità di una modalità d’intervento può essere preclusa a causa della natura emergente delle prove empiriche della sua efficacia, anche se si documenta un progresso per un particolare bambino.
Alcuni contributi, provenienti tra gli altri dagli ambiti della logoterapia e della neuropsicologia, hanno offerto spunti importanti per l’individualizzazione degli obiettivi di sviluppo e degli approcci terapeutici. Ad esempio, un logoterapista può contribuire al programma d’intervento del bambino mettendo in luce il ruolo delle difficoltà di pianificazione oro-motoria nei problemi di produzione orale presentati da un bambino a livello di produzione verbale.
Allo stesso modo un neuropsicologo può essere in grado di attribuire ad un deficit selettivo nell’elaborazione di stimoli in movimento (De Myer, 1975) la preferenza osservata in un bambino nei confronti di stimoli fissi (parole scritte, fotografie o disegni [Schuler]) rispetto a quelli in movimento. Pertanto, la scelta di adottare un sistema di comunicazione tramite pittogrammi viene presa in seguito ad un’attenta valutazione del profilo di abilità e disabilità del bambino e grazie al contributo di queste diverse discipline.
L’intervento proposto ai bambini con autismo dovrebbe essere basato sulle conoscenze più aggiornate sul tema dello sviluppo normale.
Tra la fine degli anni ’70 e agli inizi degli ’80 la ricerca sullo sviluppo creò una nuova cornice per concettualizare lo sviluppo della reciprocità socio-emotiva, della comunicazione, e delle abilità cognitive, e le relazioni tra questi aspetti dello sviluppo (per una rassegna si veda McLean, Snyder-McLean, 1978).
Uno dei contributi fondamentali emersi da questo corpo di ricerche era la nozione secondo cui i bambini non si limitano a imparare passivamente delle contingenze di eventi (ad esempio i rinforzi positivi e negativi dei genitori). Piuttosto, il bambino ha un desiderio profondamente radicato di coinvolgere gli altri ed esplorare l’ambiente che è la base del suo sviluppo (Bloom, 1997).
La ricerca ha dimostrato anche che i genitori di bambini con o senza disabilità creano situazioni motivanti e stabiliscono routines e attività per coinvolgere il bambino in scambi sociali e comunicativi, e quando è possibile seguono la guida del bambino e quello che suscita la sua attenzione nelle esperienze di tutti i giorni. Inoltre, il genitore ha un ruolo fondamentale nell’interpretare come significativo il comportamento idiosincratico preintenzionale o proto-intenzionale del bambino, e adattano il loro stile comunicativo per “venire incontro” alle capacità del bambino nelle diverse fasi di sviluppo.
Infine, le figure di accudimento si impegnano a sostenere e proporre modelli linguistici più sofisticati, e a supportare il coinvolgimento sociale, la regolazione emotiva, e l’espressione emotiva nelle interazioni comunicative (Bruner, 1981; MacDonald, 1989; Mahoney, Powell, 1988; McLean, 1990; McLean, Snyder-McLean, 1978; Prizant, Meyer, 1993; Prizant, Wetherby; 1990).
Questo orientamento nella ricerca sullo sviluppo rinforza la nozione secondo cui le figure di accudimento partecipano attivamente al processo d’intervento e che sostenere le famiglie nell’ambito delle loro routines “naturali ” è un elemento essenziale per promuovere cambiamenti evolutivi nel bambino, una strategia adottata nell’ambito di molti approcci all’intervento descritti nella nostra rassegna.
La ricerca sullo sviluppo ha inoltre portato a capire che il quadro comportamentale osservato nei bambini con DSA non deve essere liquidato semplicemente come “deviante ” o “bizzarro ”, termini caduti sempre più in disuso nella letteratura sugli DSA delle ultimi due o tre decadi. Piuttosto, la ricerca ha dimostrato che le discontinuità evolutive (come l’emergenza non armonica, talvolta con grandi discrepanze, delle diverse capacità) e i patterns indicativi di particolari stili cognitivi (caratterizzati ad esempio da eccezionale memoria meccanica, e da patterns di “gestalt” linguistiche come nel caso dell’ecolalia) sono compresi meglio in riferimento ai dati emersi dalla ricerca sullo sviluppo normale, come i quadri comunicativi e linguistici osservati in alcuni bambini con sviluppo tipico (per ulteriori approfondimenti si veda Prizant, 1983; Schuler, 1995; Wetherby, Schuler, Prizant, 1997).
Inoltre, alcune manifestazioni sensoriali e motorie spesso osservate, come le stereotipie motorie e alcuni tipi di sensibilità sensoriale, possono essere meglio comprese in riferimento ad alcuni quadri osservati in bambini con sviluppo tipico (Anzalone, Williamson, in corso di stampa) piuttosto che liquidarli alla stregua di comportamenti di “auto-stimolazione”.
Un modello d’intervento dovrebbe affrontare le manifestazioni predominanti dei D.S.A.
Riteniamo che un modello d’intervento debba indirizzarsi verso le principali differenze qualitative (le disfunzioni centrali) delle prime fasi di sviluppo, le quali hanno un impatto sullo sviluppo e sul funzionamento adattivo dei bambini con DSA. Queste disfunzioni comprendono il deficit nella reciprocità socio-emotiva (Kanner, 1943; Klin, Volkmar, Sparrow, 1992), nella comunicazione verbale e preverbale (Wetherby, Prizant, Hutchinson, 1998; Whetherby, Prutting, 1984) e nei processi cognitivi (elaborazione sensoriale, ragionamento astratto, formazione verbale dei concetti) (Courchesne, Townsend, Akshoomoff, Yeung-Courchesne, Press, Murakami, Lincoln, James, Saitoh, Egaas, Haas, Schreibman; 1994; Koening, Rubin, Klin, Volkmar, in corso di stampa; Schuler, 1995).
Se non vengono affrontati dall’intervento, questi deficit centrali possono avere un impatto significativo sulle abilità di apprendimento del bambino, sulle sue capacità di comunicare in modo significativo e di creare solide relazioni sociali. E’ stato ad esempio ben documentato che i bambini con DSA presentano frequentemente difficoltà nell’iniziativa comunicativa (verbale e non-verbale) e tendono a comunicare primariamente per ragioni strumentali (come richiedere e protestare) (Mundy, Sigman, Kasari, 1990; Wetherby, Prutting, 1984). Di conseguenza, le opportunità di creare un’attenzione condivisa, di impegnarsi in interazioni con gli altri e di condividere gli stati emotivi vengono limitate, influenzando negativamente l’acquisizione di forme più sofisticate di comunicazione linguistica e gestuale e di abilità sociali.
Se non prende in considerazione queste ed altre manifestazioni centrali dei DSA, un modello d’intervento fallirà nel dare luogo a risultati di trattamento significativi a lungo termine (come lo sviluppo di relazioni sociali significative ed emotivamente soddisfacenti).
In una recente rassegna della letteratura, Dawson e Osterling (1997) identificano alcuni elementi essenziali dei programmi d’intervento appropriati che si indirizzano ai deficit sottostanti alle manifestazioni così evidenti nei bambini con DSA. In primo luogo, si rileva che i modelli d’intervento precoce devono includere protocolli per facilitare l’attenzione agli stimoli sociali rilevanti presenti nell’ambiente, l’iniziativa comunicativa spontanea, il gioco simbolico, l’imitazione spontanea, e l’interazione sociali con coetanei ed adulti. Viene anche indicata dagli autori la necessità di supportare la motivazione del bambino a comunicare spontaneamente non solo nell’ambito di sessioni di apprendimento strutturata, ma anche nell’ambito delle routines e dei contesti che si vengono a creare naturalmente.
Un’altra componente critica dell’intervento precoce è la creazione di opportunità d’interazione con i coetanei e il coinvolgimento attivo della famiglia.
I modelli d’intervento devono dimostrare una coerenza logica tra i loro obiettivi a lungo termine e i protocolli di insegnamento.
Riteniamo che i modelli d’intervento debbano presentare una coerenza interna tanto nella sequenza delle abilità che saranno obiettivi del trattamento, quanto nei processi di insegnamento e di supporto allo sviluppo proposti. Ad esempio, il Pivotal Response Training di L.K. Koegel e colleghi è costruito sullo sviluppo di importanti abilità di base come
rispondere a molteplici stimoli, la motivazione, l’autocontrollo e l’iniziativa. Secondo gli autori, a un miglioramento in queste aree consegue un aumento nelle capacità di autonomia, apprendimento, e generalizzazione di nuove capacità.
L’approccio DIR di Greenspan e Wieder si basa su un modello ben articolato di passaggio delle varie fasi dello sviluppo sociale ed emotivo attraverso un orientamento alle relative competenze in ambito comunicativo e di elaborazione sensoriale. In emtrambi i casi è palese la coerenza interna tra la filosofia di fondo e la pratica d’intervento.
Al contrario, Anderson e Romanczyk scrivono che quando i bambini con DSA si oppongono al trattamento, una strategia è quella di insegnar loro a collaborare limitando la loro mobilità e adottando uno stile di insegnamento più direttivo, pur rimanendo l’obbiettivo finale quello di promuovere la maggiore indipendenza e iniziativa. Queste procedure sono state oggetto di dibattito tra i clinici e i ricercatori provenienti sia dalla tradizione ABA che dagli approcci evolutivi, in particolare riguardo al loro impiego nell’insegnamento di abilità social-comunicative e nello sviluppo del linguaggio (per ulteriori approfondimenti, si vedano Prizant, Wetherby, 1998).
La perplessità emersa più spesso è quella che questo tipo di procedura induca i bambini ad essere passivi e crei problemi di mancata generalizzazione, di dipendenza dall’iniziativa altrui e dia luogo ad acquisizioni situazione-specifiche. Sulla base dei dati presentati da L.K. Koegel e colleghi sull’importante relazione che intercorre tra capacità di iniziativa del bambino ed esiti evolutivi migliori, l’insegnamento a bambini che hanno fondamentalmente un ruolo di rispondenti passivi rappresenta un’evidente e preoccupante incoerenza negli approcci ABA più tradizionali.
I programmi d’intervento devono essere creati sulla base di molteplici fonti.
Non ci sentiamo allineati rispetto alla posizione secondo cui le pratiche devono derivare soltanto da procedure validate basate sulla ricerca empirica. Shonkoff (1996), che è molto noto per le sue ricerche sull’efficacia del trattamento e la sua esperienza nelle politiche a sostegno dell’intervento precoce, ha dichiarato che alla base delle pratiche d’intervento precoce ci deve essere la conoscenza di dati derivanti da molteplici fonti di informazione. Esse includono la teoria (ad esempio la teoria evolutiva, le teorie sull’apprendimento, la teoria sistemica famigliare) i dati clinici ed educazionali (la documentazione relativa ai progressi ottenuti in seguito alle pratiche messe in atto nei contesti della casa e della scuola/centro riabilitativo), la conoscenza delle migliori pratiche (la conoscenza che si è venuta ad accumulare negli anni sulla base dell’esperienza clinica ed educativa), l’impatto sociale (orientare le pratiche e gli obiettivi d’intervento sulla base dell’impatto sociale e/o personale), i dati empirici (i risultati della ricerca empirica, condotta con i requisiti minimi richiesti dal controllo sperimentale).
Qualche esempio può dimostrare come fonti diverse da quelle della ricerca empirica hanno contribuito significativamente a migliorare le pratiche d’intervento per i bambini con autismo, così come le potenziali limitazioni derivate dalla richiesta che la ricerca sperimentale serva da unica base per la definizione di pratiche cliniche ed educative.
In primo luogo, è oggi largamente accettato che i supporti visivi (come schemi ad immagini, o visualizzazone delle scelte) siano di significativo beneficio e rappresentino “buone pratiche” per la maggior parte dei bambini con DSA (Prizant, Wetherby, 1989; Quill, 1997; Wetherby, Prizant, 1999). Sappiamo che i supporti visivi vennero introdotti tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 e conobbero una larga diffusione nell’educazione dei bambini con DSA intorno alla metà degli anni ’80. Questi supporti visivi vennero adottati in seguito alla scoperta della relativa forza nell’elaborazione visiva osservata in molti bambini con DSA e vennero validati nella pratica educativa (non attraverso la ricerca empirica).
La ricerca sui supporti visivi, come gli schemi ad immagini, non apparve in letteratura prima della fine degli anni ’80 e primi anni ’90. Se gli operatori avessero dovuto attendere la prova derivata dalla ricerca empirica, è possibile che l’implementazione di queste procedure così importanti e creative sarebbe sopraggiunta con grande ritardo o non sarebbe sopraggiunta affatto. Osserviamo ancora programmi e operatori che non utilizzano supporti visivi (a scapito dei loro alunni) per l’inflessibile aderenza al principio secondo cui la validazione sperimentale è il solo criterio per orientare la pratica clinica ed educativa.
Un altro esempio deriva dall’utilizzo di una pratica incentrata sul coinvolgimento della famiglia nell’intervento precoce, basato largamente sulla teoria sistemica famigliare e sulla valutazione del valore sociale dell’intervento. Sono state le associazioni dei genitori, e non la ricerca sperimentale, a promuovere l’adozione legale di queste pratiche negli anni ’80. L’efficacia educativa e clinica della pratica incentrata sul coinvolgimento della famiglia è stata dimostrata empiricamente solo una volta che tale pratica è entrata a fare parte dei requisiti d’intervento per i bambini. Anche il movimento per l’integrazione delle persone con disabilità ha avuto una storia simile, con giustificazioni basate sull’impatto sociale che hanno preceduto la ricerca empirica.
Infine, riportiamo un esempio di pratiche che sono mutate in considerazione del valore sociale nonostante la presenza di prove empiriche d’efficacia. L’uso di strategie di punizione per ridurre i comportamenti “indesiderabili ” (come i comportamenti auto-stimolatori, o l’ecolalia) o il training per il contatto visivo come prerequisito per le altre abilità, un tempo accettati come parte integrante dei protocolli ABA (Lovaas, 1981), non sono attualmente più sostenuti dai clinici come parte dell’approccio ABA. Tuttavia queste procedure erano messe in atto al tempo dello spesso citato studio sugli esiti condotto da Lovaas (1987). Chiaramente, la spinta perché queste strategie venissero cambiate derivava da considerazioni sociali ed educative prima che dal supporto sperimentale.
CONTRIBUTI E LIMITI DEI DIVERSI APPROCCI
ABA (Applied Behavior Analysis, analisi applicata del comportamento)
I più significativi contributi dei programmi ABA sono messi bene in luce nelle pubblicazioni di Anderson e Romancyzk. Tra essi citiamo lo sviluppo di procedure di valutazione funzionale dell’intervento, la task analysis (analisi del compito), e l’enfasi sulla documentazione oggettiva dei progressi. L’introduzione della valutazione funzionale ha permesso di considerare con più attenzione le variabili che influenzano il comportamento e ha dato vita ad importanti intuizioni per la comprensione e il trattamento dei problemi di comportamento.
La task analysis ha aiutato gli operatori e i genitori a suddividere i compiti più inaccessibili nelle loro parti componenti, facilitando l’apprendimento di abilità che possono essere acquisite facendo riferimento a precise sequenze di comportamenti.
La valutazione funzionale è un’area che dimostra chiaramente come la letteratura e la ricerca provenienti da due diverse tradizioni (l’approccio ABA e quello evolutivo social-pragmatico) possano fondersi creando pratiche educative più sofisticate (Prizant, Wetherby, 1998). Le tassonomie utilizzate nelle ricerche sulla valutazione funzionale sono state desunte, in parte, dalla letteratura sullo sviluppo e sull’intenzionalità comunicativa (Prizant, Wetherby, 1987). Anderson e Romanczick enfatizzano inoltre l’importanza di misurare e controllare i progressi in modo sistematico, un contributo di vecchia data dell’approccio ABA. Questa procedura fornisce dati per chi gestisce i servizi, e dà una base per le decisioni da prendere in ambito clinico ed educativo.
E’ importante notare, tuttavia, che la misurazione dei progressi è un requisito proprio di ogni pratica d’intervento, e ogni approccio sceglie le procedure di misurazione in modo diverso, a seconda della sua filosofia e della sua tradizione. Per esempio, gli approcci ABA tradizionali si basano tendenzialmente sul calcolo di risposte giuste attraverso la percentuale di sessioni di apprendimento necessarie per determinare la padronanza di un’acquisizione nell’insegnamento diretto. Al contrario, negli approcci evolutivi i dati vengono raccolti nel corso di attività più naturali per documentare i cambiamenti evolutivi in aree come la comunicazione spontanea, il gioco e la socializzazione.
Infine, Anderson e Romanczyk, mettono in rilievo la necessità di sfatare il mito che l’approccio ABA corrisponda alle sedute di lavoro al tavolino e sottolineano il gran numero di approcci che ricadono sotto il nome di ABA, alcuni dei quali (come l’insegnamento incidentale) possono considerarsi approcci eclettici e ibridi ispirati a molteplici tradizioni (Prizant, Wetherby, 1998).
La nostra preoccupazione rispetto all’approccio ABA tradizionale riguarda la sottovalutazione o la franca non considerazione da parte di alcuni suoi sostenitori (vedi ad esempio Smith, 1996), dei contributi provenienti da altre discipline e modelli d’intervento (come logoterapia, integrazione sensoriale, educazione speciale).
Inoltre, significativi rilievi critici riguardano la pretesa dell’ABA di agire su tutte le aree colpite nei bambini con DSA (Maurice, 1996). Questa pretesa non tiene conto del fatto che diversi aspetti, problematici e non, che caratterizzano i DSA possono richiedere diversi approcci d’intervento (come insegnare sequenze motorie versus sviluppare la reciprocità emotivo-sociale). Ad esempio, è comprensibile che una sequenza di azioni motorie, come quelle necessarie per portare a termine un’attività di autonomia, possa essere insegnata attraverso prove discrete ricorrendo alla task-analysis.
Tuttavia l’efficacia di questa stessa procedura di insegnamento diretto per sviluppare la reciprocità socio-emotiva e l’uso spontaneo del linguaggio (deficit centrali nei bambini con DSA) è stata messa in discussione dalla ricerca e dall’esperienza clinica. Gli studi hanno dimostrato che l’espressione dell’affetto positivo è meglio supportata nel bambino e nel caregiver in situazioni “naturalistiche” piuttosto che in sessioni di apprendimento discrete (Koegel, O’Dell, Dunlap, 1998; Schreibman, Kaneko, Koegel, 1991).
Gli approcci per sviluppare l’uso del linguaggio spontaneo, come l’insegnamento incidentale e il pivotal response training, furono sviluppati in primo luogo per far fronte alla mancata generalizzazione nell’uso spontaneo e comunicativo del linguaggio “appreso” in sessioni di apprendimento discrete (per ulteriori approfondimenti, si veda Prizant, Wetherby, 1998). Anche Lovaas (1977) a cui si attribuisce l’introduzione delle sessioni discrete nell’insegnamento a bambini con autismo, ha scritto: ” Lo stile di insegnamento…il suo utilizzo di rinforzi “innaturali”, può essere forse la causa della produzione verbale ristretta e situazione-specifica che osserviamo in molti dei nostri bambini” (p.170).
Pivotal Response Training
Un importante contributo del Pivotal Response Training (PRT) è stato quello di promuovere lo spostamento dell’attenzione dell’ABA dai comportamenti specifici da insegnare alle capacità sottostanti che si riflettono in molti modi sullo sviluppo del bambino. Un altro contributo significativo del modello PRT è l’attenzione data all’espressione dell’affetto del bambino come misura della motivazione. L’espressione emotiva e l’esperienza emotiva sono aspetti che sono stati trascurati nell’approccio ABA tradizionale, e in una certa misura anche negli approcci ABA contemporanei, mentre sono attentamente considerati dagli approcci evolutivi (Greenspan, Wieder, 1999; Prizant, Wetherby, Rydell, in stampa).
Un ulteriore contributo dell’approccio PRT, coerente con il movimento a favore dell’integrazione, è l’enfasi sulle esperienze precoci di integrazione (ad esempio in età prescolare) in contrasto agli approcci ABA più tradizionali, che tipicamente sostengono la necessità la necessità di un prolungato periodo di insegnamento con rapporto 1:1 (adulto-bambino).
Alcuni rilievi critici e perplessità riguardo al modello PRT riguardano la mancanza del riferimento a una cornice evolutiva che aiuti a scegliere obiettivi e strategie del programma d’intervento e la scarsa attenzione attribuita alle difficoltà sperimentate dai
bambini con DSA nell’ambito dell’elaborazione sensoriale e della pianificazione dei movimento. Tuttavia, in contrasto con gli approcci ABA tradizionali, gli autori riconoscono che il modello PRT non è che un insieme di procedure che possono essere usate insieme ad una varietà di altri approcci.
Approccio dell’insegnamento incidentale nell’intervento precoce
McGee e colleghi (1999) presentano un modello di intervento che esemplifica la sovrapposizione spesso osservata tra approcci basati su diverse tradizioni d’intervento (come ABA e approcci evolutivi). Anche se basati sui principi dell’insegnamento ABA, l’approccio e i programmi di insegnamento incidentale sono più simili agli approcci evolutivi (Greenspan, Wieder, 1999; Prizant, Wetherby, 1998) che all’ABA tradizionale, e, infatti, lo sviluppo di questo modello è stato fortemente influenzato dalla letteratura sullo sviluppo pragmatico (Hart, 1985).
McGee e colleghi criticano direttamente l’approccio ABA “prevalente” o tradizionale per molte ragioni. In primo luogo fanno notare che le aspettative della società sono in conflitto con la programmazione per il bambino di lunghe ore di sessione di lavoro seduto a tavolino. Inoltre, riconoscono che l’approccio ABA tradizionale non si orienta su quella che è una delle caratteristiche fondamentali degli DSA, la compromissione qualitativa nell’interazione sociale.
Insegnando abilità in ambito non-sociale, per creare una base per un successivo apprendimento sociale, gli autori ritengono che con questo “modello di preparazione sociale” l’approccio ABA trascura il periodo critico in cui orientarsi alle difficoltà evolutive centrali dei bambini con DSA.
Infine, l’approccio incidentale è stato creato per ovviare ad un limite importante degli approcci ABA tradizionale, la difficoltà a generalizzare le abilità acquisite nell’ambiente naturale (R.L. Koegel, 1995). Il modello crea quindi opportunità per intervenire nel contesto delle attività che hanno luogo con un gruppo di pari nel tipico setting dell’età prescolare, così come nell’ambiente familiare. In questo modo, viene attivamente promossa la generalizzazione del linguaggio e delle abilità sociali.
Uno dei maggiori contributi dell’approccio dell’insegnamento incidentale è l’enfasi che McGee e colleghi pongono nella promozione costante dello sviluppo sociale (enfasi comune anche a Greenspan e Wieder) e dell’iniziativa comunicativa. Come ricordato prima, la ricerca sullo sviluppo ha indicato che, quando i bambini sviluppano la spinta naturale alla comunicazione spontanea, si osserva un miglioramento delle abilità di attenzione condivisa e un’acquisizione di forme di linguaggio più sofisticate.
Questo approccio si rifà anche al contemporaneo modello transazionale dello sviluppo precoce (McLean, Snyder-McLean, 1978). Gli operatori e i caregivers che seguono la strategia dell’insegnamento incidentale hanno un ruolo fondamentale nell’interpretare come significativi i gesti del bambino e a proporre modelli appropriati al suo livello di sviluppo.
Una delle nostre perplessità riguardo al modello presentato da McGee e colleghi (1999) è che gli obiettivi d’intervento, anche se provenienti dall’input di un team interdisciplinare, non risultano apparentemente individualizzati in un programma diverso per ogni bambino con il supporto continuativo di diverse discipline (come logoterapia o terapia occupazionale). Anche se sviluppati con l’assistenza di un logoterapista, gli obiettivi del programma sono piuttosto generici e non catturano il continuum evolutivo dei mezzi comunicativi dalle prime forme gestuali precoci all’uso di gesti convenzionali e di immediata comprensione (si veda Schuler, Wetherby, Prizant, 1997).
In aggiunta lo stile di apprendimento con i suoi punti di forza e punti deboli di ogni bambino richiede specifici aggiustamenti del programma comunicativo del bambino (ad esempio esercizi oro-motori, o sistemi di comunicazione tramite immagini). Queste aree di funzionamento richiedono spesso una stretta attenzione nei bambini con DSA, e dovrebbe essere garantita la presenza di uno specialista del linguaggio e comunicazione che possa monitorare attentamente il bambino e utilizzare diversi strumenti man mano che il bambino sviluppa mezzi più sofisticati di comunicazione.
Infine, è importante notare che questi interventi di supporto basati sul profilo specifico di ogni bambino (come intergrazione sensoriale e comunicativa aumentativa) non interferiscono necessariamente con il tempo dedicato allo sviluppo delle abilità sociali, come suggerito da McGee e colleghi.
Al contrario, le attività di integrazione sensoriale possono svolgersi nel corso di momenti di scambio sociale (giochi sociali, o attività di attivazione vestibolare come saltare) e possono sostenere lo sviluppo sociale supportando la capacità del bambino
di modulare il livello di arousal mantenendo la calma e l’attenzione. Allo stesso modo, bambini che a causa delle difficoltà a sviluppare il linguaggio verbale come primo mezzo di comunicazione imparano ad utilizzare strumenti di comunicazione non-verbali hanno più possibilità di avviare un’interazione comunicativa attraverso modalità alternative (gesti, segni, immagini) che attraverso il solo linguaggio.
Modello evolutivo, individualizzato, basato sulla relazione
Uno dei contributi significativi del modello DIR (Greenspan, Wieder, 1998; 1999) che Greenspan e Wieder hanno portato nel campo degli DSA è la nozione che in questo gruppo eterogeneo di bambini non sono esistono “meccanismi etiologici chiaramente identificati”. Di conseguenza il profilo di punti di forza e punti deboli specifico di ogni bambino, piuttosto che il riferimento generico all’etichetta diagnostica, dovrebbe guidare la pianificazione di valutazione ed intervento.
Determinando i limiti funzionali del singolo bambino nelle aree della comunicazione, pianificazione motoria, elaborazione sensoriale e modulazione sarà possibile stabilire il supporto necessario per aiutare il bambino a sviluppare un maggior coinvolgimento sociale con il suo ambiente, a intraprendere iniziative comunicative spontanee, e condividere esperienze affettive sia con i genitori che con i coetanei. Questo modello contribuisce non solo suggerendo una strada per approcciarci all’eterogeneità, ma anche dando una base per determinare direzioni rilevanti per la ricerca.
Anziché esaminare l’efficacia di uno specifico modello di trattamento per tutti i bambini con DSA, che sarà più o meno rilevante a seconda del singolo bambino, Greenspan e Wieder raccomandano l’utilizzo di una ricerca ispirata alla più ampia letteratura riferita a bambini con vari tipi di validità (come gli studi sull’efficacia delle strategie volte a sviluppare l’iniziativa comunicativa, migliorare la pianificazione motoria e promuovere la regolazione dell’arousal ).
Fanno anche notare che il profilo di un singolo bambino con DSA può essere in molti modi più simile a quello di un bambino con una diversa etichetta diagnostica rispetto a quello di un altro bambino con DSA.
Il modello DIR esemplifica inoltre l’importanza di seguire i principi dello sviluppo tipico. Nel modello viene riconosciuto che lo sviluppo sociale, comunicativo e cognitivo prende forma a partire dai primi scambi affettivi e interazioni sociali con i caregivers.
Inoltre, le basi fondamentali della crescita socio-emotiva, considerate necessarie per il raggiungimento degli obiettivi a lungo termine di questo programma d’intervento, sono ben definite dagli autori e si riferiscono a un modello ben articolato dello sviluppo. Nel lungo termine, si spera che i bambini possano sviluppare un senso di sé come “soggetto intenzionale e interattivo ”, imparando a stabilire l’attenzione condivisa, a rimanere coinvolti in scambi sociali con gli altri, a utilizzare strategie condivise di problem solving gestuale e preverbale, a formare idee e costruire ponti che colleghino queste idee.
I contributi delle altre discipine (logoterapia, terapia occupazionale, educazione speciale) sono integrate nel modello DIR come “tecniche per promuovere lo sviluppo nei bambini con esigenze specifiche”. Una perplessità che tuttavia abbiamo riguardo al modello è la difficoltà di coordinare obiettivi e supporti tra i vari servizi, soprattutto per i bambini molto piccoli non ancora inseriti in programmi scolari.
Anche se il modello DIR di Greenspan e Wieder ci aiuta a capire in che modo servirsi della ricerca sullo sviluppo per costruire interventi con i bambini con DSA, è importante riconoscere che gli approcci evolutivi possono variare nell’enfasi data a diverse abilità di base a diversi stadi di sviluppo.
Ad esempio, Prizant, Wetherby, e Rydell (in stampa) descrivono un intervento con un approccio evolutivo che attribuiva particolare enfasi e grande specificità nel sostenere l’abilità del bambino di esprimere un ampio range di intenti comunicativi e di utilizzare forme più sofisticate di comunicazione e linguaggio. Queste aree di sviluppo sono considerate le basi per la conseguente fondazione dello sviluppo di un senso di competenza sociale, l’abilità di regolazione emotiva, e l’abilità di impegnarsi in scambi comunicativi significativi con i coetanei e i genitori.
DIREZIONI FUTURE PER LA RICERCA E LA PRATICA CLINICA
Nel pianificare un adeguato piano d’intervento per un bambino con DSA, è necessario stare attenti a non concludere che esiste un approccio migliore degli altri, considerando che la ricerca nell’ambito sta muovendo i primi passi, che ogni approccio ha considerevoli limiti, e considerando anche la grande eterogeneità presente nei bambini e nelle famiglie. Piuttosto, riteniamo che l’obiettivo più importante per i bambini sia quello di aiutarli a partecipare come partner adeguati a scambi comunicativi e sociale con gli altri bambini e con i membri della famiglia e di vivere queste esperienze come emotivamente positive. Lo sviluppo di relazioni positive e sicure è allo stesso tempo un fondamento e una conseguenza del successo nelle interazioni sociali-comunicative con gli altri, su cui si crea la motivazione per risolvere problemi e apprendere nel mondo sociale (Prizant, Wetherby, 1990).
Lo sviluppo di queste abilità interattive prende forma nel corso delle transazioni tra il bambino e il suo partner comunicativo (genitori, coetanei, operatori). Pertanto, un approccio onnicomprensivo all’intervento dovrebbe valutare l’impatto che il profilo di abilità e disabilità del singolo bambino ha su queste transazioni sociali comunicative e in che modo possono contribuire genitori e coetanei a promuovere lo sviluppo nel contesto di una più ampia rete sociale.
I ricercatori devono ora analizzare la complessa relazione tra l’acquisizione delle abilità comunicative, i fattori socio-emotivi (come la relazione emotiva), e i modelli di supporto transazionale predittori di migliori esiti evolutivi per i bambini con DSA. In aggiunta, per misurare l’efficacia del nostro intervento, dovremmo andare oltre le tradizionali misure delle abilità comunicative e linguistiche, come quelle date dai miglioramenti nelle prestazioni ai test standardizzati, e includere caratteristiche più ampie. Misure significative degli esiti possono includere il grado di riuscita degli scambi comunicativi, le dimensioni associate di espressione e regolazione emotiva, la motivazione sociale-comunicativa, la competenza sociale, la relazione con i coetanei, e la competenza osservata nel bambino all’interno del suo ambiente naturale.
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