
INFORMAUTISMO N° 7 - ANNO 2004, gennaio-aprile
Orientamenti contemporanei negli studi sull’autismo: dalla ricerca alla pratica clinica.(di Giacomo Vivanti)
Il settimo congresso internazionale di Autisme-Europe, tenutosi a Lisbona il 14, 15, e 16 Novembre 2003, ha visto la partecipazione, tra i relatori, dei nomi più autorevoli nel campo dell’autismo (tra gli altri, Catherine Lord, Patricia Howlin, Ami Klin, Uta Frith, Rita Jordan, Simon Baron-Cohen, ed Eric Fombonne).
Un’analisi delle principali relazioni presentate al congresso consente di valutare quali siano le tematiche e le direzioni in cui attualmente concentra maggiormente la sua attenzione la comunità scientifica internazionale. E’ infatti possibile ravvisare, dietro l’eterogeneità dei contributi divulgati a Lisbona, alcune direzioni precise che sembrano orientare in modo sempre più consistente i diversi gruppi di lavoro che si occupano di autismo in Europa e nel mondo. Se le questioni irrisolte, di ordine teorico e pratico, rimangono molte, ed intorno ad alcuni nodi cruciali si registrano ancora posizioni antitetiche, solo di recente è possibile delineare dei precisi punti fermi sui quali si raccoglie il consenso della comunità scientifica internazionale.
Cerchiamo di precisare qui alcuni dei punti d’incontro che hanno dato uno sfondo comune alle relazioni presentate a Lisbona, confermando le direzioni che emergono dall’analisi della letteratura recente sull’autismo.
1) Metodologia.
Le diverse ricerche presentate durante il congresso sono state caratterizzate da grande eterogeneità nelle discipline di provenienza dei relatori, da diversi background culturali, da una significativa molteplicità di approcci e dal diverso rilievo attribuito a diversi aspetti della sindrome autistica. Malgrado questa molteplicità, è possibile affermare che tutte le ricerche erano inquadrabili in una cornice epistemologica comune: la scelta di aderire alla logica della evidence-based medecine. Questa opzione metodologica contrappone un paradigma che si avvale di una strumentazione metodologica obiettiva all’ormai abbandonato paradigma “impressionistico”, che vede l’intuizione del clinico come base sufficiente per confermare ipotesi e trarre conclusioni. Si tratta, in altre parole, di adottare una prospettiva di sano empirismo da contrapporre ad una di carattere intuitivo e speculativo. L’abbandono definitivo delle teorie psicoanalitiche sull’autismo nella letteratura scientifica di lingua inglese è conseguenza quindi di una scelta che è in primis metodologica: esse non vengono prese in considerazione in quanto non sostenute da evidenza scientifica.
Le difficoltà che ha incontrato in Italia il paradigma della evidence-based medecine è dovuto in larga parte al fatto che il dibattito scientifico nel nostro paese è permeato di posizioni ideologiche che lasciano poco spazio alla lucidità dell’analisi obiettiva dei risultati di ricerche e trattamenti. Le relazioni esposte a Lisbona hanno senza eccezione confermato la consapevolezza sempre più matura della necessità di affidarsi a strumenti basati su una metodologia scientificamente fondata, o, in altre parole, della necessità di essere guidati dalla conoscenza anziché dalla fede.
Questa direzione comune della comunità scientifica segna un’evoluzione, peraltro iniziata da molto ma non ancora affermata del tutto in Italia, dell’atteggiamento di psicologi e psichiatri nei confronti delle persone con autismo e delle loro famiglie: limitare le proprie conclusioni a ciò che è quantificabile e dimostrabile è conseguenza di un atteggiamento di umiltà e profondo rispetto nei loro confronti. Si può senz’altro affermare che l’abbandono di una pratica clinica basata sulla speculazione e sull’intuizione si è affermata con il tempo nell’ambito dell’autismo anche grazie alla progressiva crescita d’importanza delle associazioni e degli enti di tutela che combattono per i diritti delle persone con autismo e delle loro famiglie.
Alla base di una filosofia di lavoro di questo tipo vi è lo strettissimo legame, messo in evidenza più volte a Lisbona, tra ricerca e clinica: evidence based intervention vuol dire che le pratiche di intervento sono basate sui dati della ricerca, dati che non sono fissi e immutabili, ma si accumulano sempre più rapidamente, definiscono nuovi quadri di riferimento e danno luogo a basi sempre più solide per raffinare le pratiche di trattamento. Essere quindi guidati non più dalla fede ma dalla conoscenza significa poter aggiornare e migliorare costantemente il proprio lavoro.
2) Pratica clinica.
L’intervento che ha meglio sintetizzato una serie di temi comuni alla maggior parte delle relazioni incentrate sulla pratica clinica è stato quello di Catherine Lord, che nella sua relazione ha potuto illustrare i dati raccolti da un comitato di esperti da lei guidato che per conto dell’Academy of Sciences ha condotto un’indagine sull’efficacia dei diversi modelli d’intervento proposti negli Stati Uniti.
Nel corso degli ultimi decenni qualsiasi tipo di intervento concepibile è stato provato con le persone con autismo: dall’iniezione di cellule cerebrali animali, alla holding-therapy, alla psicoterapia di gruppo, alla “danza-terapia”, all’ippoterapia. Gli unici interventi la cui efficacia sia sostenuta dall’evidenza scientifica sono gli interventi di tipo psico-educativo, e, in una certa misura, alcuni interventi farmacologici. Nella relazione di Lord è stato rilevato che pur essendoci una certa eterogeneità di approcci in ambito psico-educativo, quelli che hanno un effettivo impatto sull’esito evolutivo dei soggetti con autismo sono caratterizzati da una serie di condizioni comuni (National Research Council, 2001):
I bambini devono avere accesso all’intervento educativo in età precoce non appena sussista il forte sospetto di diagnosi di autismo.
I programmi devono essere adattati ai soggetti di tutte le età, in modo tale che un soggetto, quale che sia la sua età cronologica, possa in qualsiasi momento iniziare a beneficiare del programma di intervento.
Il programma deve essere intensivo, con un impegno di almeno 25 ore settimanali.
L’intervento deve essere basato su un programma educativo individuale che nasce da una valutazione multi–assiale del soggetto. Nessun programma è ugualmente efficace per ogni soggetto. Gli interventi devono essere “cuciti su misura” con riferimento al livello di sviluppo ed al profilo di abilità e disabilità del soggetto.
Il piano educativo deve prevedere un rapporto operatori-alunni più basso possibile (uno a uno o gruppi molto ridotti).
Le famiglie devono essere attivamente coinvolte nell’implementazione del programma.
Gli obiettivi d’intervento, pur essendo diversi per ogni soggetto, devono interessare le aree chiave della comunicazione, socializzazione, e del comportamento adattivo.
Il programma deve essere dotato di sensibilità evolutiva: nell’insegnare abilità e funzioni al soggetto con autismo devono essere rispettate le sequenze evolutive che compaiono nello sviluppo normale. Per questa ragione, gli interventi per i soggetti con autismo miglioreranno man mano che aumenterà la nostra conoscenza sulle caratteristiche dello sviluppo normale.
Gli obiettivi vengono perseguiti attraverso strategie di intervento ispirate al modello cognitivo-comportamentale, ma all’interno di una visione olistica che tenga conto delle caratteristiche evolutive dei soggetti nelle diverse aree di sviluppo e dell’interrelazione tra le diverse aree.
A partire dal profilo di punti di forza e punti deboli del soggetto, ne vengono sviluppate le potenzialità per compensarne le disabilità.
Il piano educativo deve preparare il soggetto alla vita adulta, e prevedere programmi di generalizzazione e mantenimento delle abilità acquisite.
Il programma deve prevedere periodiche valutazioni e aggiustamenti del piano educativo.
Quest’ultimo punto è della massima importanza ed è stato più volte messo in evidenza nei lavori del congresso: il percorso che va dalla valutazione all’intervento più che in modo lineare deve essere letto in modo circolare. E’ stato ad esempio più volte affermato che quando il bambino inizia l’intervento in età precoce, la valutazione diagnostica deve essere ripetuta a distanza di non più di un anno dall’inizio dell’intervento. Se la diagnosi viene confermata, il lavoro di valutazione consiste in un monitoraggio periodico dei progressi del soggetto e del raggiungimento degli obiettivi previsti dal piano educativo. Il raggiungimento degli obiettivi stabiliti aprirà la strada alla definizione di nuovi più ambiziosi obiettivi.
Il mancato raggiungimento sarà invece oggetto di un’attenta analisi dei fattori che hanno ostacolato il successo (l’obiettivo non era ben calibrato sulle effettive potenzialità del soggetto? Le strategie messe in atto per raggiungerlo non erano adatte a quel particolare soggetto?).
Questa circolarità tra processi valutativi e di intervento è virtualmente infinita: sulla base delle abilità acquisite si potranno costruire nuovi apprendimenti migliorando sempre di più l’adattamento del soggetto al suo ambiente. Lo strumento più utilizzato per verificare l’andamento del programma sono le Vineland Scales of Adaptive Behavior (Sparrow e coll., 1984), da poco entrate a far parte della strumentazione disponibile ai clinici italiani; altri strumenti standardizzati, accompagnati da rilevazioni qualitative, saranno utilizzati a seconda delle aree di sviluppo prese in considerazione dal piano educativo individualizzato
3) Cornici teoriche nella ricerca.
Un ulteriore tema comune a numerosi interventi presentati al congresso è stata la definizione di cornici teoriche sempre più sofisticate per inquadrare la ricerca sull’autismo. In particolare, la natura della sintomatologia autistica viene sempre più vista in un quadro che mette in risalto la dimensione evolutiva, l’importanza dell’orientamento sociale precoce e le complesse interazioni tra le diverse linee evolutive (cognitiva, comunicativa e sociale in primis). L’esigenza di approfondire e aggiornare i quadri teorici di riferimento nasce dall’ insoddisfazione rispetto alle teorie psicologiche classiche degli anni ’90 (Teoria della Mente, Funzioni Esecutive, Coerenza Centrale), che interpretavano le difficoltà dell’autismo in un’ottica di cognizione “computazionale” (il deficit consiste in un danno selettivo che colpisce la capacità di elaborare i simboli, ponendo l’elaborazione delle informazioni come una serie di operazioni di elaborazione compiuta da un agente su una serie di simboli).
Le teorie “computazionali“ vengono oggi criticate per non cogliere in modo sufficiente la dimensione evolutiva della psicopatologia e per non rendere conto di numerosi fenomeni osservati con una sempre maggiore documentazione negli ultimi anni, soprattutto nei bambini molto piccoli.
Il contributo più importante che ha affrontato la definizione di una nuova cornice teorica nell’inquadramento della psicopatologia autistica è stato quello di Ami Klin, che ha riportato i dati recentemente pubblicati anche in Italia sul magistrale articolo “La mente enattiva”, (Klin et al., 2004), uscito nel numero di Gennaio del periodico “Autismo e disturbi dello sviluppo”, edito dalla Erickson.
La tecnologia dell’eye–tracking, messa a punto dai ricercatori dello Yale Child Study Center, consente di ottenere un preciso tracciato dei punti di fissazione dello sguardo di un individuo posto di fronte ad uno schermo sul quale scorrono immagini. Con questa strumentazione Klin, Volkmar e coll. (2002a, b) hanno potuto vedere quali sono i punti in cui fissa lo sguardo una persona con autismo posta di fronte ad un filmato rappresentante una situazione sociale.
In un’indagine finalizzata a rilevare le differenze tra il modo in cui una situazione è percepita da un gruppo di soggetti con autismo rispetto a un gruppo di controllo è stato rilevato che le persone con sviluppo tipico, di fronte a un film che mostra una situazione sociale complessa, sono orientate tipicamente a fissare il fuoco dell’attenzione verso gli occhi dei protagonisti, ed in effetti l’informazione più rilevante per decodificare il significato della scena del film mostrato era proprio negli sguardi di sorpresa e orrore dei protagonisti.
Il gruppo dei soggetti con autismo (selezionati nell’esperimento all’interno del sottogruppo con QI nella norma) invece non era quasi mai orientato verso gli occhi, ma verso altri punti della scena che non erano utili per catturare il significato sociale della situazione: la bocca o altri particolari irrilevanti dell’ambiente in cui si muovono gli attori. La differenza tra i pattern di fissazione dei due gruppi risulta altamente significativa, e induce a riflettere su quanto sia apparentemente disadattivo il non fare riferimento agli occhi delle persone per decifrare il senso di una situazione. Una significativa preferenza nell’orientamento dell’attenzione verso gli occhi piuttosto che verso la bocca è stata riscontrata nei bambini a sviluppo normale già a tre mesi di età (Klin e coll., 2003).
Volkmar F. Roma, 17 Marzo 2003.
Studi con Eye Tracking: Osservazione sullo schermo di un triangolo amoroso
(dal film"Chi ha paura di Virginia Wolf?")
In un secondo esperimento pubblicato nell’ambito dello stesso studio (Klin e coll., 2002a) la metodologia dell’eye–tracking venne utilizzata per indagare l’abilità del gruppo di persone con autismo nel seguire un gesto di indicazione verso il target indicato dalla direzione del gesto. Venne utilizzata la scena di un film nella quale un attore chiede informazioni su un quadro appeso al muro: nel fare questo prima indica uno specifico quadro su un muro dove ce ne sono altri, e immediatamente dopo chiede ad un'altra persona “Di chi è quel quadro?” E’ stato rilevato che tipicamente i soggetti con sviluppo tipico seguivano immediatamente il gesto di indicazione identificando correttamente l’oggetto dell’attenzione condivisa, per poi dirigere lo sguardo verso l’attore da cui ci si aspettava la risposta alla domanda: utilizzavano quindi l’informazione gestuale non verbale e la integravano con quella verbale per decodificare il senso della scena.
Al contrario, le persone con autismo (e ricordiamo che si trattava di soggetti con Q.I. nella norma) ignoravano il gesto di indicazione, trascurando quindi l’indizio chiave per decodificare il significato di ciò che accadeva sullo schermo. Successivamente venne chiesto loro se sapevano quale fosse il significato del gesto di indicazione, e di fronte alla domanda esplicita furono in grado di rispondere correttamente, in accordo con l’osservazione che nei soggetti con autismo high functioning c’è una drammatica discrepanza tra le loro buone prestazioni in espliciti compiti di ragionamento e problem solving sulle situazioni sociali e quanto sono in grado di fare nelle situazioni di vita reale.
Qual è quindi la reazione spontanea delle persone con autismo a uno stimolo sociale? In che modo cercano i significati in ciò che vedono? Dare una risposta precisa a queste domande non contribuisce solamente a chiarire il funzionamento dei processi percettivi e attentivi e la loro relazione con la cognizione sociale, ma ci avvicina secondo alcuni autori al nucleo patogenetico dello sviluppo dell’autismo.
I dati a disposizione finora sembrano suggerire che nell’autismo viene a mancare sin dalle prime fasi di sviluppo una disposizione ad orientarsi in direzione degli stimoli sociali rilevanti per attribuire significato alle situazioni sociali: mancherebbe quindi il senso di relativa salienza dell’informazione sociale. In questo modo sembra che il soggetto con autismo non possa avvalersi di quella che Klin e colleghi definiscono “topologia della salienza”, che permette di semplificare la complessità creando delle aspettative su quali sono le informazioni utili a decodificare la situazione. Nelle situazioni sociali della vita reale molti stimoli o “indizi” si presentano in modo rapidissimo: fallire nel coglierli porta ad un generale fallimento nell’afferrare il significato dell’intera situazione, e tutto questo conduce ovviamente ad un fallimento nell’organizzare la risposta adattiva a tali situazioni.
La difficoltà nel fare attenzione e identificare gli aspetti rilevanti e salienti delle situazioni sociali è stata inquadrata dagli autori di Yale in una cornice interpretativa di psicopatologia evolutiva.
La possibilità che nell’autismo la relativa salienza dello stimolo sociale possa essere diminuita potrebbe essere la base per una cascata di eventi evolutivi in cui il bambino colpito da autismo fallisce fin dalle prime fasi di sviluppo nell’esperire e sperimentare un mondo sociale rilevante. Questo porterebbe al mancato accumulo delle esperienze di interazione con il mondo sociale che sono alla base della cognizione sociale.
Alcuni dati della ricerca sembrano dare notevole sostanza a questo quadro interpretativo. E’ stata documentata una mancanza di orientamento verso il suono della voce umana nei bambini con autismo fin dai primi stadi di sviluppo, e forti anomalie rispetto ai bambini con sviluppo tipico sono state rilevate nella sensibilità al cambiamento della direzione dello sguardo del partner dell’interazione durante i primi scambi sociali (Klin e coll., 1999).
E’ stato inoltre studiato il comportamento dei soggetti con autismo nel paradigma dello “human motion display”, che consiste nel far osservare degli insiemi di punti luminosi in movimento su uno schermo. E’ stato osservato che un gruppo di bambini normodotati preferiva tipicamente rivolgere l’attenzione all’insieme di punti luminosi che simulava il movimento di un essere umano rispetto ad un secondo insieme in cui venivano simulati i movimenti di una figura capovolta. I soggetti con autismo invece dirigevano casualmente l’attenzione ora ai punti che si muovevano simulando il movimento umano nella direzione corretta, ora ai punti che simulavano i movimenti della figura capovolta.
Di particolare interesse è inoltre il contributo derivato dagli studi di neuro-immagine condotti allo Yale Child Study Center (Schultz e coll., 2000): è stato rilevato che mentre nel gruppo di controllo l’elaborazione dei volti umani è associata all’attivazione del Giro Fusiforme, negli individui con autismo tale elaborazione è associata invece all’attivazione delle strutture del giro temporale inferiore, un pattern di attivazione che viene ottenuto dal gruppo di controllo quando viene processata l’informazione relativa ad oggetti. Questi risultati indicano che gli individui con autismo non utilizzano il normale substrato neurale nella percezione dei volti umani, e falliscono quindi nell’elaborare i volti come classe speciale di stimoli visivi.
E’ stato suggerito (Gauthier e coll., 1999) che il Giro Fusiforme non sia necessariamente il sito neurologico specializzato nel riconoscimento facciale, ma sembra essere invece una struttura associata alla “visual expertise”: se una persona diventa ”esperta” in una determinata classe di oggetti, una selettiva attivazione del Giro Fusiforme viene associata all’elaborazione di un oggetto appartenente a quelle classe.
Questi contributi portano a concludere che molto verosimilmente il Giro Fusiforme non si attiva nei soggetti con autismo quando elaborano le informazioni relative ai volti umani perché essi non sono esperti in volti umani, al contrario dei soggetti con sviluppo tipico che sviluppano questa competenza attraverso una lunga storia di esperienze accumulate centrate sul volto umano. Questi risultati sono estremamente coerenti con il quadro di psicopatologia evolutiva proposto: i volti umani hanno scarsa salienza per i bambini con autismo, e rappresentano quindi molto meno spesso un target sul quale sviluppare esperienza. Si delinea quindi un quadro evolutivo in cui il buon funzionamento delle basi della cognizione sociale è compromesso sin dai primi stadi di sviluppo, dando luogo a strategie di adattamento anomale.
La nuova prospettiva teorica illustrata da Klin è sostenuta da una serie sempre più ampia di studi, e pur rappresentando una cornice interpretativa diversa da quelle che tenevano banco fino a pochi anni fa, essa è risultata perfettamente coerente con le ricerche riportate da numerosi altri relatori del congresso, in cerca di paradigmi interpretativi meno semplicistici e sempre più in grado di utilizzare al meglio gli strumenti della psicologia sperimentale, della filosofia della scienza e della medicina basata sull’evidenza scientifica.
![]() Laureato in Psicologia Evolutiva presso l’Università “La Bicocca” di Milano, malgrado la giovane età (è nato a Milano il 9/11/1978) Giacomo Vivanti ha al suo attivo una solida esperienza nel campo dell’autismo. E’ stato trainer per l’ Opleidingscentrum Autisme diretto da Theo Peeters, e si è ulteriormente formato presso il Child Study Center, Università di Yale (USA), sotto la guida di Ami Klin. Attualmente svolge attività di tirocinio presso il Dipartimento di NeuropsichiatriaInfantile dell’Ospedale “Le Scotte” di Siena, diretto da Michele Zappella. Ha due fratelli con autismo. |
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