
INFORMAUTISMO N° 2 - ANNO 2002, maggio-agosto
L’INTEGRAZIONE SCOLASTICA: PERCHE’ E’ COSI’ DIFFICILE SE IL BAMBINO E’ AUTISTICO ?(di Donata Vivanti)
Prima di parlare nello specifico dell’integrazione scolastica dei bambini con autismo, vorrei ricordare che cosa significa essere autistici, e quali ne sono le conseguenze per i familiari, e, anche se in misura minore, per tutti coloro che si occupano di bambini affetti da questo handicap, e come le caratteristiche stesse dell’autismo costituiscano una sfida per l’integrazione.
I DEFICIT: Conoscenze e miti
I deficit di base che caratterizzano l’autismo, il disturbo della comunicazione e dell’interazione sociale sono condizioni che di per sé rendono particolarmente difficile non solo l’apprendimento e l’integrazione scolastica, ma la convivenza e la vita stessa della famiglia fin dalle prime manifestazioni dei sintomi nel bambino.
Il disturbo della comunicazione
Benché i genitori si accorgano presto, a volte fin dalla nascita, o comunque entro i primi mesi o anni di vita, dei disturbi di comunicazione del bambino, che si manifestano con un ritardo o assenza di linguaggio, spesso si aggrappano come ad un’ancora di salvezza alle rassicurazioni di parenti, amici e talvolta anche di professionisti poco competenti, che tendono ad attribuire le segnalazioni del problema all’ansia dei familiari piuttosto che a difficoltà oggettive, e tendono ad assecondare il bisogno di rassicurazioni dei genitori. Tuttavia avere a che fare con un bambino che non comunica senza comprendere l’origine del disturbo, può portare con sé una situazione di grave disagio per i genitori oltre che per il bambino, che può venire scambiato, non solo in famiglia, ma successivamente anche a scuola, per un bambino ottuso, o peggio, per un bambino viziato, ostinato, oppositivo, che “ non voglia ” comunicare, quando invece il bambino non può farlo a causa del suo handicap. Di conseguenza, poiché nessuno nasce con la conoscenza innata di quello che l’autismo è e comporta, chi si occupa del bambino corre il rischio di esercitare su di lui delle pressioni inopportune, o, a volte, in casi estremi, anche di punirlo a causa del suo handicap.
Chi involontariamente cade in questo equivoco, una volta acquisita la consapevolezza dei problemi reali del bambino, dovrà affrontare anche il senso di colpa di non aver saputo capire e aiutare.
Il disturbo dell’interazione sociale
Il disturbo dell’interazione sociale è altrettanto devastante sia sulla famiglia che sull’ambiente sociale. I neonati mettono in atto molto presto uno scambio sociale, al loro livello di sviluppo, estremamente frequente e vivace con i genitori. I bambini con autismo invece, soprattutto nei casi in cui il disturbo si manifesta appieno fin dalla nascita, sembrano indifferenti alle cure e alle sollecitazioni dell’adulto, sembrano voler rifiutare amore e dedizione. Nemmeno questo atteggiamento è una colpa del bambino, e tanto meno dei genitori o dei professionisti che se ne occupano, è l’espressione dell’autismo.
Ma caratteristiche simili, in bambini dall’handicap “invisibile ”, sono spesso fraintese, e non è raro che familiari, insegnanti e personale sanitario, esasperati, se ne incolpino a vicenda, anche se darsi la colpa l’un l’altro non serve e non aiuta nessuno, e scava abissi di incomprensione dove sarebbe indispensabile invece la massima collaborazione.
I disturbi percettivi
I disturbi percettivi, ancora poco studiati, ma che dovrebbero comunque essere tenuti nella massima considerazione, soprattutto nei più piccoli, possono rendere la vita dei bambini con autismo un vero inferno, e l’integrazione in un ambiente rumoroso, come una classe, estremamente problematico. Le persone autistiche con alto livello di funzionamento descrivono spesso questo tipo di disturbo e quanto abbia reso difficile, se non impossibile, la loro vita in comunità, spiegando come possa provocare problemi di comportamento.
Benché i problemi di comportamento non siano esclusivamente né necessariamente presenti nell’autismo, in realtà sono spesso il motivo principale per cui genitori e operatori scolastici cercano aiuto.
I problemi di comportamento
I problemi di comportamento, quando si presentano, costituiscono una grande sfida per l’equilibrio del nucleo familiare e della classe, specialmente se si manifestano fenomeni di aggressività. Niente è più sconvolgente che accompagnare il bambino in mezzo ai coetanei, confidando nel suo spontaneo aprirsi alla relazione, e vederlo respingere gli altri a calci, a morsi, a pugni.
Altrettanto sconvolgenti sono le manifestazioni di auto-aggressività: vedere un bambino che si picchia, batte la testa contro il muro, e non sapere il perché e non potere fare nulla, genera un senso di impotenza, di inadeguatezza nelle proprie capacità, che precipita familiari e operatori nello sconforto.
La distruttività non è forse altrettanto drammatica, ma è comunque un comportamento che può mettere a rischio l’equilibrio della classe, perché capita che, in mancanza di una guida competente e di programmi adeguati, i compagni di scuola di un bambino con autismo vengano messi nella condizione di dover accettare situazioni inaccettabili per bambini della loro età, e talvolta anche il rancore e il senso di ingiustizia nei confronti di un bambino che non viene mai punito, mentre a loro viene chiesta tanta tolleranza.
Miti e malintesi
Non dimentichiamo inoltre che l’ambiente sociale, proprio per mancanza di una cultura dell’autismo, risponde spesso in maniera inadeguata, drammatizzando, moltiplicando, elevando alla ennesima potenza il disagio della famiglia.
Al primo posto dei fattori di stress derivati dall’ambiente sono le false credenze sull’autismo, fra cui la credenza derivata in parte dai primi studi di Kanner, ma soprattutto dalle teorie di Bettelheim e dei suoi seguaci, secondo la quale, in un’interpretazione di tipo psicodinamico, l’autismo sarebbe la conseguenza un rapporto disturbato con i genitori e in particolare con la madre, definita, in una espressione tristemente nota a molti, “madre-frigorifero”.
Questa concezione, conosciuta a livello internazionale, come “la pagina nera” della psichiatria, è ampiamente superata ormai da trent’anni nei paesi anglosassoni, in seguito a studi su vaste popolazioni condotti alla fine degli anni ’60 e all’inizio degli anni ’70, sia in Europa dall’equipe del Prof. Rutter, sia negli Stati Uniti, da parte dell’equipe della “Division Teacch” di Schopler. Questi studi dimostrarono che i genitori dei bambini con autismo non differivano in nulla dai genitori dagli altri bambini con handicap per quanto riguardava la capacità di offrire cure parentali adeguate. Sulla base di queste conclusioni ,i paesi anglosassoni orientarono le strategie di intervento per l’autismo in senso psico-educativo, attraverso interventi di tipo cognitivo-comportamentale.
L’incomprensione sociale e l’identificazione dell’autismo come “chiusura” in un guscio che racchiude potenzialità intatte di apprendimento, che deriva da una cultura diffusa di questo tipo, oltre che dall’ “invisibilità” dell’autismo, cioè dall’aspetto fisico normale, quando non addirittura particolarmente bello di questi bambini, è responsabile della superficialità con cui il disturbo autistico viene sottovalutato nella scuola, e mette in pericolo il diritto stesso del bambino ad una educazione adeguata alle sue difficoltà, nell’attesa che il “guscio” si spezzi.
L’isolamento della famiglia e la mancanza di collaborazione con genitori ritenuti “ patogeni ” rischia inoltre di privare il bambino di un intervento efficace, perché non si può pensare, in una patologia così complessa, di affidarsi ad un metodo o ad una strategia: l’intervento deve essere altrettanto complesso e multidisciplinare per essere efficace a lungo termine, e non si può realizzare senza la collaborazione più ampia possibile fra genitori e professionisti nel campo della medicina, della psicologia e dell’educazione. Viceversa l’incomprensione da parte dell’ambiente sociale e scolastico rischiano di esasperare i familiari, suscitando sentimenti di rinuncia nei confronti dei diritti fondamentale del bambino all’educazione
GLI INDICATORI DI QUALITA’ PER L’AUTISMO
Se dopo queste premesse torniamo a considerare gli indicatori di qualità, illustrati durante il convegno Handilab, organizzato dalla FISH nel marzo 2002, e in molte altre occasioni, non possiamo che essere d’accordo sulla loro importanza anche per l’integrazione scolastica dei bambini con autismo. Tuttavia è necessario tenere sempre presente le difficoltà specifiche che le caratteristiche intrinseche dell’autismo comportano nella pratica educativa e dell’integrazione, dal momento che l’educazione stessa passa per la comunicazione e per l’integrazione sociale, che nell’autismo sono primariamente deficitarie.
Gli indicatori strutturali citati da Nocera, cioè le pre-condizioni organizzative del servizio scolastico e degli altri servizi territoriali che garantiscono in prospettiva una maggiore o minore qualità dell’integrazione, nel caso dell’autismo richiedono una particolare attenzione in rapporto all’effettiva continuità dell’insegnamento, al coinvolgimento nella formazione e nella programmazione di tutto il consiglio di classe, che dovrebbe adattare il programma di tutte le attività e l’ambiente educativo alle caratteristiche del bambino, nel rispetto delle sue difficoltà e del suo diritto di apprendere, oltre che alla realizzazione di accordi di programma che garantiscano la coerenza e la continuità orizzontale dell’insegnamento in ogni ambito di vita del bambino.
Gli indicatori di processo dovrebbero, nel caso dell’autismo, comportare una particolare attenzione all’utilizzo di strumenti di valutazione standardizzati che nel modo più obiettivo possibile permettano di costruire programmi basati sulle capacità e potenzialità presenti, più che sulle difficoltà, programmi non solo individuali ma flessibili a seconda delle risposte e dell’evoluzione del bambino e funzionali al raggiungimento del maggior grado di autonomia e ad una vita adulta dignitosa. Particolare attenzione dovrebbe essere dedicata a formalizzare la collaborazione con la famiglia, sia nella fase valutativa, come “ esperta ” del bambino, sia nella fase progettuale, come garante e responsabile ultima della continuità dell’intervento.
Particolare attenzione poi dovrebbe essere dedicata agli indicatori di risultato, cioè agli effetti che il processo d’integrazione produce sugli alunni con autismo.
Da una parte infatti la valutazione dell’efficacia dell’educazione si rende ancora più importante nei confronti di un disturbo che, come abbiamo visto, è soggetto ancora oggi ad interpretazioni ed equivoci. Le persone con autismo, a causa delle loro stesse caratteristiche, apprendono con difficoltà perfino le abilità più banali per noi, necessarie nella vita quotidiana, ed è umano che gli educatori si lascino talvolta attirare da scorciatoie o da approcci in voga senza preoccuparsi abbastanza di valutarne i risultati.
Gli obiettivi del PEI
Il PEI dovrebbe quindi non solo portare particolare attenzione al punto di partenza, la valutazione funzionale individuale, ma anche ai contenuti dell’insegnamento e alla sua efficacia, attraverso obiettivi chiari, realistici, e valutabili in modo oggettivo
D’altra parte, per la dignità stessa di questi alunni, l’efficacia del PEI dovrebbe rapportarsi alla sua funzionalità nel migliorare non tanto le acquisizioni nelle materie curricolari, quanto la qualità di vita soggettiva ( più serenità, meno problemi di comportamento) e oggettiva ( più competenze nella vita quotidiana) dell’alunno, requisiti indispensabile anche all’integrazione stessa.
Nelle persone con autismo una crescita nelle capacità di comunicazione e di interazione sociale, e di conseguenza delle relazioni interpersonali, non può avvenire spontaneamente come semplice conseguenza della possibilità di stare nella classe insieme agli altri. Troppo spesso si vedono bambini con autismo “ inseriti ” nella classe come un banco o un termosifone, fisicamente presenti ma mentalmente assenti, in preda a continui episodi di aggressività o di autolesionismo, impossibilitati a stabilire uno scambio, interamente in carico alla buona volontà degli insegnanti e dei compagni.
Viceversa le abilità sociali, e l’integrazione scolastica stessa, dovrebbero rappresentare l’obiettivo del PEI attraverso l’insegnamento attivo proprio di quelle abilità comunicative e sociali che sono primariamente deficitarie nell’autismo.
L’adattamento dell’ambiente.
Per questi bambini, specie se gravemente colpiti dalla sindrome, è spesso necessario predisporre un ambiente che faciliti l’apprendimento attraverso strategie specifiche e strutturazione spazio temporale. Molti, non comprendendone la funzione e il significato, considerano questi strumenti come fattori che contrastano l’integrazione nella classe.
Al contrario, una strutturazione adeguata al livello di comprensione simbolica individuale è nella maggior parte dei casi necessaria al bambino con autismo, affetto da un disturbo primario della comunicazione, dell’interazione sociale e delle capacità immaginative, per favorire la prevedibilità degli eventi e dare le informazioni che gli altri spontaneamente sono in grado di dedurre da un ambiente non strutturato, in modo da metterlo nelle condizioni di imparare e di inserirsi nella comunità, così come ad un disabile motorio sono necessari strumenti tecnologici a supporto della sua indipendenza.
NOTA: Questo articolo e' disponibile anche in formato PDF

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