
INFORMAUTISMO N° 4 - ANNO 2003, gennaio - aprile
Don Chisciotte aveva idee balzane(di Patrizia & Tiziano Gabrielli)
Non solo Don Chisciotte aveva idee balzane. E’ un’idea balzana ri-chiederci di “fare solo i genitori”. Che altro potremmo essere?
E’ un’idea ridicola quando sottende una sorta di taciuto dettato comportamentale: essere bravi genitori (per costoro) comporta essere “pazienti, rassegnati, ricono-scenti, accondiscendenti, collaboranti” con l’Apparato Istituzionale e Sociale che si fa carico dei nostri figli. Non indagare sull’operato, né sognarsi di formulare dettati agli esperti, alle figure incaricate, quelle che rivestono i suggestivi ruoli del medico, del ricercatore, dell’abilitatore, dell’insegnante…
Il consiglio implicito è: lasciate fare a loro.
Credo sia giusto per tutti che un genitore non si improvvisi ciò che non è. E’ inoltre ammissibile che vi sia qualcuno che non sappia davvero come muoversi e che è bene venga aiutato… ma in senso più generale, sembra significare che ogni cosa cui una volta si partecipava come genitori (crescita; istruzione; consumi; scelte alimentari e comportamentali, attività; tempo libero; valori spirituali; sentimenti; ideali; passioni sportive; terapie; abilitazione; riabilitazione; accoglienza, ecc.) va delegata a strutture e persone istituzionalizzate; e se ciò non fosse ancora possibile, va presto inquadrata.
Le situazioni difficili trovano maggior ragione di delega senza condizioni, di incorporazione nell’apparato, per normalizzarne la peculiarità.
L’autismo è una problematica complessa che ha bisogno di risposte complicate che necessariamente risentiranno di regole precise. I servizi hanno strutture articolate e compartimentate; sanitarie, sociali, scolastiche ecc., coordinate fra loro. Debbono far fronte a ciò che c’è, a ciò che ci sarà e con quanto c’è… Stiamo assistendo all’organizzarsi e al correggersi progressivo di questo intervento ed ammet-tiamo che ci vorrà molto tempo per ottimizzarlo.
Quello che però non possiamo dimenticare è il “guardare lontano”. Non sono importanti tanto le aspettative attuali di coloro che oggi hanno il problema, a vari livelli, con varie sfaccettature e gravità, quanto la massima riduzione delle esigenze future. Per fare questo ciò che si deve costruire oggi è doppio, da una parte affrontare i casi in essere, dall’altra ridurre le problematiche e i bisogni dei casi che verranno. I casi che verranno sono i piccoli, le nuove diagnosi e per costoro non si fa quello che si dovrebbe fare.
E’ un’idea mostruosa che essere genitori significhi accettare con passività che l’abilitazione dei nostri piccoli figli, quella realmente possibile, si riduca a poche ore settimanali di psicomotricità e logopedia e a sette-otto (?) ore di scuola al giorno.
I servizi erogati non sono la benevola elargizione di un’entità astratta, una forma di potere irresponsabile. Il sistema siamo noi. E’ malsano guardare ai servizi con incondizionata fiducia e pensare che l’ossequio reverente sia il solo presupposto per ottenere rispetto ed attenzione, visti gli effetti sperimentabili del manifestare insoddisfazione.
Ma cosa succede in realtà?
L’abilitazione medica non esiste. Ripeto, non esiste oggi in Italia, abilitazione del soggetto autistico o con malattie correlate, realizzata da personale sanitario, non esiste una presa in carico terapeutica medica (eccezione la prescrizione farmacologica per ridurre eventuali sintomi) e tutto quanto faccia parte dei requisisti indispensabili per qualsiasi delega, quanto viene letto nei testi e udito nei convegni è trasferito (male) dalla sanità alla scuola.
Delegare alla scuola l’“abilitazione” del proprio figlio con autismo è la confusione che molti genitori compiono ogni giorno. Ma non solo loro. Credono questo perché sono stati ingannati. In realtà la scuola è chiamata a fare altro. Questo labirintico inghippo è sottaciuto abilmente dagli esperti, che lo riempiono di astratte progettualità e competenze allontanando il problema da loro verso il personale… della scuola (avrei potuto qui usare la parola “personale docente” che suonava anche bene, ma non è questo il vero protagonista; per l’autismo si parla di personale non docente, di sostegno, se non personale ATA o bidelli).
L’abilitazione medica non vuole esistere e si identifica nell’abilitazione cognitiva pedagogica (e non sarebbe poco se fosse attuata), mentre la dimensione comportamentale e relazionale ristagna, ormeggiata ai pregiudizi, così come la dimensione sociale, familiare, del lavoro; restano in una dimensione incidentale e onirica… Il problema clinico, speciale, disfunzionale, sensoriale-cerebrale, vero scoglio dell’autismo, viene trasferito sugli insegnati e su nuovissime professionalità (pedagogia clinica, pedagogia speciale ecc) il cui collocamento è in definizione.
I sanitari del territorio, che si muovono a tentoni, volutamente recalcitrano sul ruolo, preferendo rafforzare l’importanza di quanto squisitamente pedagogico e perciò marginale e in odore di delega appunto. Molte associazioni preferiscono non ascoltare, non vedere, non testimoniare, né denunciare il negativo in attesa di favori palliativi, meglio se personalizzati. I genitori le cui attese si trasformano in straziante constatazione del disastro abilitativo del proprio figlio, diluiscono lo sfinimento del vuoto procedurale intuito, nel solito pregiudizio tombale che conoscono: la gravità della patologia.
La scuola è un momento integrativo irrinunciabile perché consente esperienze significative, ecc. E cosa si potrebbe dire di meglio? Siamo tutti d’accordo.
La realtà quotidiana e le leggi obbligano dunque il genitore a delegare l’abilitazione e l’integrazione alla scuola.
Secondo molti dirigenti scolastici il progetto attuale (leggere: quello che è in atto sotto la loro giurisdizione) è il meglio che si possa realizzare. Ora io capirei se quanto difendono fosse assimilabile al progetto-scuola integrautismo che è una guida esemplare per il tempo scuola (*). Ma nella maggioranza dei casi si accetta ancora per buono l’inghippo che maschera quello che non c’è. Si accetta giocoforza il ruolo che la scuola può semplicemente sostenere, adattandosi a chi capita, seppur mugugnando e alla frequente, ostinata sordità, questa sì inamovibile, di figure senza professione, senza formazione che trasformano, inespugnabili, l’integrazione in una “consegna a tempo “.
La scuola oggi é ancora il surrogato di uno spazio protetto dove permanere. Non è l’autismo che preoccupa ma il posto di lavoro.
Quanto spreco legalizzato nell’integrazione scolastica del soggetto autistico. Quanto denaro a fiumi per vederli perdere quel poco che si era riusciti ad insegnare a casa, per vederli girovagare per ore nei corridoi, osservati a vista da bidelle in chiacchiericcio con l’insegnante di sostegno; perché apprendano ‘a tempo pieno’, l’inadeguatezza che non conoscevano.
Spreco di risorse meravigliose e di tempo prezioso per una vera abilitazione del bambino autistico, che esiste e non si vuol praticare.
Delegare alla scuola quello che crediamo debba fare la scuola è dunque una idea balzana? E’ opportuno ci spieghino cosa loro ritengono debba insegnare la scuola.
Solo con alleanze forti tra professionisti dell’autismo, operatori e genitori, su obiettivi chiari e su scelte lungimiranti, come quelle descritte nel progetto integrautismo, si potrà ottenere che il tempo scuola qualcosa di buono produca. Sino a che la scuola non sarà guidata con rigore da esperti veri e responsabili, in grado di incidere su scelte e personale, su contratti e persino licenziamenti, sino a quel giorno la scuola davanti a questi problemi farà percorsi autonomi, di superficie, senza sicurezze di risposte qualitativamente e quantitativamente significative.
Ora supponiamo che la scuola occupi di nostro figlio otto ore al giorno (?). Le altre quattordici dove le passa (se fate eccezione per l’ora di logopedia… semestrale) ?
Le passa in casa con i genitori.
Ora potrebbe succedere che il genitore, all’oscuro delle difficoltà del figlio, sia ostativo all’incredibile programma abilitativo attuato presso la ASL e a scuola (fingiamo che infine esistano) e pertanto che lo stesso genitore possa o debba inserirsi in modo congruo in un progetto di abilitazione quotidiana, anche solo con una dimensione specifica familiare, incidentale.
Questo ruolo genitoriale sarebbe possibile, sicuramente utile, se non necessario (autonomie, relazione, attentività, ecc.). Perché ci sia la famosa continuità e una qualità di vita e di intervento per tutti. Anche i genitori dunque vanno coinvolti ed istruiti su come e cosa si deve fare e non si deve fare, e se questi concetti riguardano la “scienza abilitativa”, a divenire anche loro “abilitatori”.
Concludendo: come si può essere “solo genitore” se l’abilitazione del proprio figlio non parte? Se non è medica (?). Se (per caso) non avviene nemmeno a scuola? Se non ci sono progetti avanzati e condivisi? Come si può restare “solo genitori” se si deve condividere e collaborare ad progetto abilitativo continuo e complesso?
I genitori lavorano comunque, tutte le ore del giorno con il figlio “diversamente abile”, e lo fanno per tutta la vita. Forse è il caso di “ arruolarli”, preparandoli bene per un progetto lungimirante e sarebbero più facilmente motivabili di qualsiasi professionista.
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