
INFORMAUTISMO N° 10 - ANNO 2005, gennaio-aprile
Autismo fai da te(di Tiziano Gabrielli)
Si propone il concetto di Autismo “fai da te” come sintesi di una situazione sotto gli occhi di tutti ma paradossalmente invisibile. Questo termine sembra chiamare in causa la tracimazione di competenze, solitamente attribuita ai familiari e più raramente ad altri protagonisti, figure professionali ed istituzionali, in ambito di presa in carico “reale”, di persone con disabilità cognitivo-comportamentale, affette da autismo od altri disturbi pervasivi dello sviluppo. In realtà Autismo “fai da te” descrive un fenomeno assai più complesso che costituisce la conseguenza ineliminabile delle caratteristiche di tale sindrome e delle attuali risposte ad essa. Le ragioni di tale definizione sono tutt’altro che ironiche, anzi fanno riferimento ad analoghe conclusioni riguardanti le più avanzate interpretazioni dello sviluppo della tecnologia rispetto alla scienza .
Nella seconda metà degli anni ‘80 il mondo della medicina ha, in in taluni settori, sulla base di una elevata specializzazione-semplificazione, risentito di un fenomeno di enorme portata pratica e concettuale, che descriverei come il sorpasso del “pragma” sulla “teoria”, cosi come più in generale si è visto succedere da parte della tecnologia sulla scienza. Nella stessa maniera in cui sempre più spesso, alcuni strabilianti risultati della tecnologia, dovuti all’enorme progressione in sviluppo e complessità di questa, anticipano di molto il coerente quadro esplicativo da parte della scienza, assistiamo anche nella medicina all’affermarsi di metodolo-gie e tecniche inusuali, emerse da applicazioni innovative della sperimentazione tecnologica ed informatica in campo biologico, genetico, chirurgico, internistico, ecc., veri e propri sconfinamenti tra scienza e scienza, decisamente in anticipo sul substrato esplicativo teorico che da sempre li prefiguravano.
In modo analogo i problemi applicativi pertinenti a problematiche sanitarie complesse spesso si manifestano utili senza attendere certezze e patenti di legittimità da parte della scienza. All’interno di specifiche branche della medicina, oggi soprassature di tecnologia, si può intravedere l’affermarsi di processi sovrapponibili a quanto appena descritto.
Nella ri-abilitazione, settore di confine, specialmente nell’ abilitazione neuro-cognitivo-comportamentale, a seguito della gravità e complessità dei casi, dell’eterogeneità e vetustà formativa, del susseguirsi casuale di momenti informativi non omogenei e non-controllabili a priori (nuove scuole universitarie, testi e comunicazioni in contraddittorio, congressi, informazioni in rete), ma anche del sovrapporsi di competenze e rimpalli di ruoli, si evidenzia oggi l’irreversibile affermarsi di una progettazione a carattere incompiuto. Gli organismi competenti, gli esperti di settore, i deputati alla “presa in carico”, per centralità strutturale e per limiti oggettivi di erogazione, si limitano a suggerire agli utenti di turno, "embrioni metodologici" che poi lasciano giocoforza interpretare e sviluppare in un ambiente “patentato” a priori come “favorevole” (casa, scuola, ambienti di svago o di lavoro protetti, luoghi di accoglienza, ecc.). Data l’opportunità di distogliere “il caso” dalle istituzioni sanitarie per immetterlo precocemente “sine cura” nel sociale, sulla base di quanto legiferato per il processo di integrazione, tale prassi è diventata comune.
Sulla base di una elevata compartimentazione nelle competenze, quando resta difficoltoso il lavoro in rete, o interessi estranei al problema divengono prevalenti, si affermano veri e propri “shunt” operativi e rispetto a qualsiasi logica procedurale o di seria sperimentazione prevale il lasciar “fare”.
L'INTEGRAZIONE DELLE PERSONE CON AUTISMO NON RIGUARDA LA SANITA'? L'attuale prospettiva sociale, contrapposta alla concezione medica, della riabilitazione rivendicata dal mondo della disabilità ha regalato al settore sanitario una brillante occasione non per incentrare il proprio intervento sulla opersona e sulle necessità individuali, di tipo fisico, psichico, intellettivo e sociale, piuttosto che su categorie nosologiche, ma di disfarsi dei costi di una popolazione vasta quanto vulnerabile e poco gratificante in termini di successi terapeutici. Se una menomazione, che sia fisica o mentale, può migliorare, il processo che supporta il miglioramento è un processo riabilitativo, e come tale dovrebbe ricadere sotto la responsabilità della sanità, anche se si tratta di un percorso educativo o di integrazione sociale. Non per niente una sentenza del Consiglio di Stato ha recentemente condannato una ASL a farsi carico permanentemente della riabilitazione di un adulto con autismo, sulla base dell’obbligo della sanità pubblica a supportare le possibilità di miglioramento della persona disabile, che sia in campo organico, psichico o cognitivo (vedi Informautismo n°7). |
Sappiamo tutti in qual modo “gli ufficialmente nominati” possano latitare attorno al problema, oppure rivestirlo di festanti girotondi formali, dando l’avvio ad interventi “ufficiosi” per poi regolarmente condannarli non sulla base di una autocritica operativa ma sul risultato degli stessi, senza mai un’analisi dettagliata di quanto è recuperabile, utile, corretto, inadeguato, inopportuno. Le solide giustificazioni teoriche di un operare coerente vengono nuovamente suggerite per sommi capi lasciando il posto a rinnovata improvvisazione. A volte ingegnosa e con ottimi esiti ma, più spesso, deva-stante improvvisazione, indifferente alle conseguenze vicine e future.
Dobbiamo considerare che ci si trova a dover intervenire comunque, persino in mancanza di basi teoriche minime, e giocoforza deve prevalere il “fare” o ciò che quel fare consente o realizza… non il “capire” secondo progettualità validate.
Nasce così inconsapevolmente un’ anti-scienza, che delegittima l’ortodossia che caratterizza la scienza ufficiale attraverso la perdita di autorevolezza delle guide e dei responsabili, e al contempo consolida una scienza “bricolage”, poco agganciata a quanto proposto inizialmente e scarsamente fedele ai principi che l’hanno suggerita. Secondo alcuni la medicina sarebbe in realtà una pseudo-scienza, poichè tuttora fondata su basi metodologiche ed epistemologiche che per incertezza e creatività si distinguono dal modello fisico-matematico cui aspirerebbe)
È interessante osservare che il “bricoleur”, in genere il genitore, o l’insegnante di sostegno, preoccupato di intervenire, pone ad un livello secondario il comprendere perché si faccia quella determinata scelta o perché si esegua una specifica procedura, o cosa realmente ci si possa attendere da essa. Si limita a proporre quanto visto e appreso e ad osservarne i risultati, correggendo il tiro in un “work in progress”, una abilitazione auto da fé. Lo scienziato e il bricoleur sono entrambi alla ricerca di conoscenze, se non che il bricoleur rispetto al primo si allontana dai postulati e dagli argomenti degli esperti. Egli utilizza ed esplora messaggi non espliciti, mere ipotesi, vista la naturale reticenza degli specialisti a pronunciamenti su questioni non ancora sperimentate.
L’autodidatta è capace di eseguire un gran numero di compiti differenziati (2. Levi-Strauss. Pensiero selvaggio. "Sulla scienza del concreto"). La sua attività si avvale di un universo strumentale finito, mai subordinato al possesso di particolari arnesi riconosciuti come specifici. Egli realizza in economia il suo progetto, adattandosi sempre all’equipaggiamento di cui dispone, utilizzando in modo non canonico qualsiasi tipo di strumento e di materiale gli offra la situazione, anche se è destinato a usi diversi e i suoi prodotti sono spesso inediti e mettono in relazione oppure collegano occasionalmente discipline lontane tra loro.
Gli effetti di questa supervisione “mordi e fuggi” sul percorso abilitativo individuale, sono logicamente imprevedibili e si sviluppano in direzioni difficilmente controllabili e con dati scarsamente sovrapponibili per le enormità di variabili consentite. Il silenzio istituzionale, forse anche annichilito dall’inutilità delle esperienze tradizionali attorno a questa situazione, ha impresso un'accelerazione fortissima alle pratiche individuali.
“Autismo fai da te” è il paradosso che descrive l’avvenuto sorpasso delle applicazioni pratiche sui processi scientifici che le dovrebbero giustificare. La progettazione degli interventi abilitativi è divenuta oggi conseguenza più di spontanei “fai da te” metodologico-culturali, di familiari, operatori e di “care givers”, piuttosto che di rigorose analisi di postulati scientifici oppure, in mancanza di questi, di protocolli medici specifici.
Alla luce di queste considerazioni appare appropriato l'uso del termine "bricolage" per indicare tutto ciò che non sa di programmazione organica e razionale, tutto ciò che sfugge ad una codifica, a un protocollo che consenta l’inclusione, la registrazione e la valutazione di quanto reclutato, effettuato e dei relativi risultati. Conseguentemente anche qualsiasi proposta di monitoraggio degli interventi effettuati, in ambito scientifico, desta forti perplessità, indipendentemente se vede coinvolti sottogruppi arbitrariamente definiti, luminari integerrimi, università, aziende sanitarie o quanto altro politicamente utile per ottenere finanziamenti pubblici, e all’interno di questi progetti non si intravede altro scopo, rigorosamente dimostrabile.
Vi sono altri elementi che giustificano il prevalere dell’hobbistica nella scienza riabilitativa:
- La pregevole volontà di perseguire un’integrazione della persona disabile e quindi l’auspicabile tendenza all’allontanamento da proposte di istituzionalizzazione.
- A livello istituzionale, la rigidità, la limitatezza e l’omologazione delle erogazioni rispetto alla eterogenità dei casi.
- L’impossibilità di reperire nel proprio distretto, non chi effettua la presa in carico formale, o le valutazioni del caso, ma gli esperti in “abilitazione” (specialmente in neuroeducazione cognitivo-comportamentale).
- La necessità di riferirsi a “qualcuno” o “a qualcosa” distante dalla propria realtà e il conseguente avvio di interventi la cui conoscenza si realizza attraverso incontri sporadici e di durata insufficiente per poter raggiungere competenze valide. Questo consente l’affermarsi di spazi personali nell’interpretazione e nell’applicazione di quanto appreso.
Ogni proposta “terapeutica”, e poco importa se validata o per così dire “obbligata”, viene scrutata e soppesata, adattata e filtrata al proprio caso, senza più un ordine intrinseco nemmeno a posteriori. Privata così di un piano intenzionale esplicito, prestabilito; in mancanza di finalità coscienti, si trasforma in qualcosa di improvvisato, non più originario, nè più trasferibile. Intenzionalità, strategie, azioni e risultati hanno legami deboli, come deboli sono le connessioni tra metodi e materiali usati e risultati ottenuti, non più confrontabili con dati precedenti. L’emergenza di risultati interessanti sembrano giustificare l’affermarsi di una pratica sulla precedente, ma rende più difficile un progetto scientifico coerente ed efficace.
Lo sviluppo di un programma ai margini di un nucleo originario solo enunciato, abbandonandolo, riprendendolo e ricombinandolo in modo invisibile al di fuori dei programmi ufficiali produce un processo incoerente di ri-combinazione e trasformazione delle procedure, senza fine.
Le successive stratificazioni strutturali di questa moltitudine di singoli momenti di un intervento “improvvisato” assomigliano più agli esiti irreversibili dei meccanismi dell’evoluzione biologica o del processo storico che al risultato di un processo culturale organizzato che vorrebbe giustificare l’intero apparato costruito attorno alle leggi sull’integrazione a tutela delle persone con disabilità. Tali personalissime esperienze divengono spesso progetti operativi proposti a livello editoriale, senza riflessioni o teorie a sostenerli.
Ora questo andamento, al contrario di quanto sta accadendo per la tecnologia rispetto alla scienza ingenieristica ed informatica, purtroppo non produce “regola”, neppure a posteriori. L’interpretazione a posteriori degli esiti produce sempre meccanismi, strutture e significati che rivoluzionano alla base lo schema scientifico. Il centralismo scientifico cede il passo al localismo operativo.
- Le oggettive difficoltà nel praticare un intervento.
- Le scarse conoscenze, la difficile gestione quotidiana, l’enormità delle energie necessarie, l’aiuto esterno inesistente oppure incompetente, la necessità di un coordinamento tra i care-giver, ecc.
- L’inefficacia in senso relativo di qualsiasi pratica.
Prendendo in considerazione che quanto sino ad oggi, di tutto ciò che è stato sperimentato, si è rivelato di una certa utilità, per una soluzione positiva della sindrome autistica, è confinato esclusivamente nell’educazione, la speciale educazione chiamata cognitivo - comportamentale, e che questo strumento, seppur modificato dalle diverse scuole di pensiero, è noto da oltre trent’anni, si deve concludere che è strano trovi ancora così elevata resistenza ad imporsi. Non si tratta semplicemente di eccesso di attese, nè di oggettiva difficoltà nella sua applicazione, nè di scarsa efficacia in senso assoluto, ma è pur vero che queste esperienze possono evidenziare anche insuccesso, una certa rigidità degli apprendimenti, incomprensibili momenti di regressione, perdita di abilità ritenute acquisite, mancata generalizzazione, affermazione di problematiche comportamentali inattese quanto gravi, tanto da poter dire che “anche” in tale pregevolissima dimensione “qualcosa non funziona”.
Il riconoscimento della debolezza della scienza medico-riabilitativa sulla base di un'incertezza operativa, di fronte alla complessità e al disordine di patologie verso cui non si ha risposta univoca, descrive lo stesso smarrimento vissuto dall'immaginario collettivo alla perdita di ruolo della medicina. L’abbandono da parte della scienza, del problema all’ignoto coincide con la supina accettazione della patologia delle sue conseguenze, avviando giocoforza formule meno razionali, che ne sono dunque l’effetto non la causa.
- la difficoltà individuale e collettiva di trasformare l’esperienza della disabilità cognitivo-comportamentale in una dimensione non-soggettiva.
Le caratteristiche dei singoli casi e delle condizioni ambientali e sociali, il loro andamento spontaneo e, più in generale, un certo miglioramento (più o meno reale) con l’età del soggetto, il variare delle competenze e delle attese dei familiari, le tipologie e le modalità degli interventi, le specifiche produzioni di risposte comportamentali, i percorsi abilitativi individuali sono così peculiari e diversificati da determinare in questa patologia un particolarissimo arroccamento nel “personalismo”. Non solo l’autismo di ciascun figlio è sempre vissuto in modo scarsamente obiettivo, ma spesso viene eretto una sorta di muro di gomma sino al realizzarsi del più completo isolamento (dovuto da una parte al “protezionismo” spontaneo per una miglior gestione e dall’altra all’oggettiva difficoltà e al forte disagio nel condividere la propria esperienza), per l’impossibilità oggettiva di trasferire le proprie difficoltà personali in aumento progressivo.
Il bricolage diviene l’unica strategia d'azione in condizioni di incertezza e in mancanza di proposte significative.
CONCLUSIONI
Impossibile modificare il “bricolage” nell’autismo.
Il fenomeno dell’“Autismo fai da te” è ancora tutto da interpretare e richiede comunque un serio esame che consenta la sua comprensione profonda, l’attribuzione di nuovi limiti, l’individuazione di pregi e benefici e soprattutto l’individuazione di spazi interni al processo che consentano di valorizzarne gli aspetti ineliminabili.
Abbiamo bisogno di abbandonare la dimensione statica, centralizzata, quella dell’equipe di esperti che attende il caso e che lo gestisce dal “trono”. Certamente tollerabile in una dimensione squisitamente diagnostica (assessment e valutazioni), ma si dovranno definire con maggiore chiarezza i protocolli, gli spazi, i modi e le scadenze delle valutazioni periodiche. Si dovrà individuare chi propone l’abilitazione, in cosa consiste, chi la effettua, chi la esegue e la gestisce, ridefinendo i singoli ruoli nella rete. Si deve giungere ad una dimensione dinamica centrifuga della presa in carico “reale”, non come esito dello scarica barile, ma come individuazione di responsabili precisi di quanto si intende realizzare.
Forse non tutti sanno che la scienza “moderna” non ha il compito di capire e spiegare la realtà con la “ragione”, ma piuttosto di produrre “modelli” che simulino l’andamento del fenomeno studiato. È una affermazione che potrà stupire ma così è: più le cose sono complesse più si deve fare ricorso a modelli teorici, possibilmente sperimentali e matematici, che le descrivano.
Sarebbe dunque importante recuperare alcune delle esperienze che possono fungere da “modello” in quanto prodotto eccellente. Tale recupero può essere formulato a posteriori solo se costruito su una documentazione teorico-pratica (rispettivamente: valutazioni periodiche di esperti – video in progress) che la dipani nel suo realizzarsi. Dunque tale prassi nella documentazione deve essere suggerita sapientemente (pretesa) a chi si misura in maniera non episodica con l’autismo o altre malattie pervasive dello sviluppo (genitori; familiari; operatori, scuola…).
Si debbono impegnare i caregiver ad una documentazione video del loro lavoro per giungere ad una correzione in progress ma anche a proporre dei modelli fondati sulla qualità dei risultati, che pertanto divengano facilmente trasferiti ad altre famiglie. Gli esperti debbono assicurare un ruolo di supervisor o di consultant e spostarsi, permanendo nelle singole realtà per insegnare “come” abilitare; mentre potranno effettuare valutazioni periodiche (sicuramente sovrapponibili per tipologia e modalità di somministrazione) in sedi centralizzate. Diverrebbe utile valutare collettivamente, in ampi dibattiti, il pro e il contro delle scelte operative effettuate dai singoli, il loro bricolage, evidenziando meglio gli intrecci fra agire e conoscere.
L’analisi e la comparazione diretta ed esplicita delle tecniche e dei metodi consentirebbe una più facile transizione del loro reale valore e validità senza scontrarsi su piani diversi (teorie) e meno accessibili a tutti rispetto a quelli pratici.
Questa modalità consente ai caregiver l’opportunità di formarsi anche attraverso una lettura critica del proprio operato, in stretta aderenza alle proprie problematiche, con incontri successivi in sedi opportune e strutturate allo scopo, consentendo loro un auspicabile incremento delle competenze, dei successi, dell’orgoglio personale e professionale in una dialettica costruttiva e pubblica con i fruitori.
Non perseguiamo lo scopo di compartecipare soluzioni del problema “esaustive, radicali o miracolose” ma semplicemente aiutare gli operatori a non sentirsi isolati all’interno della propria azione didattica “in divenire”, aprendo loro un orizzonte di riferimento più accattivante. Questo per avviare una abilitazione moderna decentrata, rispettosa delle energie erogabili, degli intenti, delle esigenze e cultura di ciascuno.
Un’abilitazione che si avvalga dell’intuizione, ma che sia capace di riconoscere prontamente e costruttivamente i fondamenti e certe situazioni limite, inopportune se non proprio "paradossalmente" gravi, che altrimenti, magari inconsapevolmente, si tollerano e si ri-producono.
Bisognerebbe chiedersi se la “Big Science” sia sempre necessaria, se la gestione accentrata di ogni aspetto che riguardi la Salute possa ancora sussistere all’interno di proposte che di fatto consentono la libera scelta individuale di ciò che s’ha da fare o non su terzi. Il vuoto propositivo che la scienza minaccia di lasciarsi dietro va presto colmato, cercando di rinunciare intelligentemente a modi rigidi e improduttivi di gestire una situazione divenuta complessa e diversificata.
Questo lavoro sui protagonisti, sul materiale ottenibile dalla periferia e dal territorio, serve anche a semplificare l’operatività, rendendola efficace e subito pronta, a migliorare l’immagine degli esperti e non significa necessariamente banalità o eccesso di prassia, ma piuttosto controllo reale di essa e possibilimente formazione reciproca a tutela delle persone con disabilità.
PERCHE’ E’ COSI’ DIFFICILE TRATTARE L' AUTISMO? Se chiedete a un esperto che cos'è l'autismo, vi parlerà di deficit in aree cruciali dello sviluppo, di stile di apprendimento diverso, di difficoltà di generalizzazione. Se chiedete ad un esperto qual’è la differenza fra autismo e ritardo mentale, vi parlerà di disarmonia di sviluppo, di menomazioni specifiche nellìe aree dell'interazione sociale e della comunicazione, di rigidità di pensiero. Se chiedete ad un esperto perchè bisogna intervenire al più presto, vi parlerà di plasticità cerebrale, di sviluppo cognitivo, di comportamento adattivo. Per questo è così necessario intervenire presto, e così difficile disegnare metodologie d'intervento efficaci per tutti. Per questo non bisogna scoraggiarsi di fronte a regressioni e insuccessi, o abbandonare la speranza di una vita serena e appagante anche per i più gravemente colpiti: il seme che non germoglia subito non è necessariamente perso, a volte prende forza e nutrimento al riparo dal gelo, e talvolta i successi immediati sono più fragili di una strada aperta, anche se non ancora imboccata. Per questo, anche, al genitore la definizione di "ritardo mentale" può sembrare così inadeguata a descrivere le difficoltà più gravi. Non sempre si tratta di rifuto dell' evidenza. Spesso è la consapevolezza di non avere a che fare con un eterno bambino, ma con un soldatino inerme, impegnato dalla più tenera età in una solitaria battaglia per l’esistenza, più grande di lui. D.V. |
- G.O. LONGO, Il corpo in codice: verso il postumano "Prometeo", n.81 marzo 2003.
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