
INFORMAUTISMO N° 6 - ANNO 2003, settembre-dicembre
“Per Natale, ho ricevuto un magnifico regalo: il professor Gianfranco Vitale, autore del libro, “Io e Gabriele ” (Ed. Pellegrini, via della Rada 67/C, Cosenza, recensito nel n° 3 di Integrautismo ) mi ha mandato in dono questo racconto, autorizzandomi a condividerlo con tutti i lettori. Poiché il racconto costituirà forse lo spunto per un suo futuro libro, l’autore desidera scusarsi fin d’ora con i lettori, se si troveranno a leggerne dei brani una seconda volta. Da estimatori di Gianfranco Vitale e della sua scrittura, non solo lo scusiamo volentieri, ma non possiamo che augurarci che questo accada.
D.V.
L’URLO di Gianfranco Vitale
A metà febbraio fu formalizzata un’importante novità dai responsabili dell’istituto Ferrero: l’imminente apertura di una struttura a hoc per soggetti autistici. Al di là della retorica che traspariva dai toni ingenuamente trionfalistici di alcuni giornali (“La casa per curare i ragazzi autistici tra i vigneti della Langa…”), l’inaugurazione di Villa Ottavia (si chiamava così la struttura) costituiva sicuramente un’importante passo avanti, un’opportunità rivolta ai soggetti ultraquattordicenni affetti da disturbi pervasivi dello sviluppo, alla continua ricerca di un adeguato modello esistenziale. Una proposta che poteva rappresentare l’inizio di un percorso attraverso il quale affrontare, in modo meno episodico e casuale, i temi e le dinamiche di una patologia complessa come l’autismo.
Non mi nascondevo, certo, la contraddizione di un’offerta pensata “esclusivamente” per chi vive una certa situazione di vita, come se fosse giusto immaginare una persona straniera relegata a vivere solo con persone provenienti dal suo stesso paese, o mettere insieme solamente coloro che la pensano allo stesso modo...
Ho sempre combattuto lo stereotipo di una società psicologizzata e medicalizzata. Lo ritengo uno schema emarginante, perché rischia di non far vedere il mondo a persone che sono come noi e che per questo hanno tutto il diritto di riappropriarsi della vita, come deve essere permesso ad ogni creatura.
Nessuno può considerare un proprio simile alla stregua di un oggetto rotto, da riparare in una sorta di officina preposta solo a questo. Tuttavia alle specificità dell’autismo è impossibile non dare risposte specifiche. Confonderlo con altre patologie è cosa del tutto sbagliata, ciò che non significa alienare gli autistici in un contesto avulso dalla realtà che li circonda.
Il problema, semmai, è quello di contemperare esigenze che rischiano altrimenti di essere speculari. Dovrebbe trattarsi di strutture perfettamente integrate nel territorio, sì da rendere possibile lo sviluppo di attività relazionali e, perché no? di esperienze lavorative, tali da favorire il consolidamento dei livelli di autonomia e il perseguimento di quello che rimane l’obiettivo primario di ogni investimento in questo settore: rendere, cioè, le persone autistiche meno dipendenti dagli altri. Sarebbe importante assicurarsi che all’interno della struttura operi una rete di assistenti tutelari e educatori professionali, infermieri e medici, personale costantemente formato ed aggiornato, al fine di dare le risposte più congrue, anche in termini qualitativi, alle varie manifestazioni caratterizzanti l’autismo.
Come si conciliavano le cose che avevo in mente con quelle di cui sentivo parlare nel corso dell’incontro di febbraio? Non era da escludere che non si conciliassero affatto e tuttavia sarebbe stato sbagliato, da parte mia, sminuire la portata di quella novità. Si coglievano tentativi di arroccamento del Ferrero, in particolare rispetto agli strumenti operativi di sperimentazione, individuati nella “sola” comunicazione facilitata.
Non volevo contrapporre semplicisticamente il Teacch alla C. F., per la semplice ragione che non esiste un metodo educativo, applicabile alla persona autistica, da scegliere aprioristicamente, quasi in modo indipendente da come la persona stessa è fatta. Quell’accento da crociata, in difesa della comunicazione facilitata e la risposta banale che fu data alle mie domande (“la sperimentiamo da anni”), mi fecero più che altro capire che la conoscenza del metodo Teacch fosse quanto meno sommaria, per non dire assente…
La cosa non mancò di preoccuparmi, perché mi pareva di assistere al goffo tentativo di confezionare un abito su misura a prescindere dalla persona chiamata ad indossarlo!
Viceversa ero convinto della necessità di costruire un progetto individualizzato, adattato direttamente ai bisogni di ciascuna persona, e solo sulla base di quei bisogni sarebbe stato giusto scegliere gli strumenti e le tecniche operative con cui lavorare. La sensazione era che il Ferrero si muovesse esattamente al contrario…
Non insistetti più di tanto nel manifestare le mie perplessità anche perché si coglieva, in tutta evidenza, la soddisfazione delle altre famiglie che parteciparono all’incontro e tutto avrei fatto, in quei momenti, tranne che turbare il clima di soddisfazione e speranza che si respirava a Castiglione Falletto, la località vicina ad Alba, dove Villa Ottavia sorgeva.
L’unità sarebbe diventata operativa a breve, si parlò addirittura di fine febbraio o inizio marzo. Non mancarono i richiami (di routine) alla partnership con le famiglie, che furono sollecitate ad informare, da subito, i propri figli dell’imminente apertura della struttura. Si sa che i soggetti autistici vivono con molta difficoltà i “nuovi” contesti, qualunque essi siano: devono essere adeguatamente preparati, al fine di evitare reazioni che possono rivelarsi persino traumatiche.
Da questo punto di vista si trattava, pertanto, di un appello ragionevole ed io cominciai, sin dalla prima occasione, a parlarne a Gabriele che – da parte sua - mi parve sufficientemente interessato.
Trascorse un intero mese senza che intervenissero concrete novità, ma pensai che questo ritardo fosse del tutto fisiologico. Mi toccò, persino, tranquillizzare qualche genitore che era riuscito ad avere il mio numero di telefono; lo feci con una certa convinzione. Certo lo stato generale di Gabriele non era mutato rispetto a quello degli ultimi mesi. Una volta mi accorsi che aveva un taglio profondo sul labbro, fece il nome di un compagno, forse una scazzottata, oppure… In macchina disse di essere caduto “come l’altra volta”: una crisi epilettica? Nessuno degli educatori seppe darmi una risposta, né sulla caduta né sul taglio al labbro. Tutti avevano fatto un turno diverso!
Le mie paure crescevano e nulla era più triste del dover ammettere che stessero venendo meno quelle certezze che, viceversa, non dovrebbero mai mancare in queste situazioni. Persino quando passeggiavo con Gabriele temevo che potesse cadere e farsi male, la stessa cosa succedeva se mi allontanavo per qualunque motivo, se uscivamo in bici o in macchina. Stavo proprio invecchiando! Forse davvero non riuscivo più a dare alcuna risposta a una situazione che si faceva, di giorno in giorno, più critica!
Basti dire che una volta avrei toccato il cielo con un dito nel vedere Gabriele e Ileana divertirsi insieme sull’otto volante delle giostre. Adesso pregavo che mia figlia non continuasse, come invece “purtroppo” stava facendo, a collezionare dei giri gratis: e se Gabriele avesse avuto una crisi epilettica proprio in quei momenti?
E’ difficile “raccontare” la propria paura, io la sentivo e la sento tutta, non sempre so come venirne fuori, è maledettamente dura!
Il rapporto tra Ileana e Gabriele non era quello che avrei voluto; sicuramente incontrarsi per qualche ora ogni quindici giorni non favoriva la costruzione di un legame forte, ci sarebbe stato bisogno di ben altro per renderlo più solido, tanto più ora che stava subentrando una mia inevitabile fragilità.
Come fare? Che risposte dare a Gabriele che continuava a chiedermi di non riportarlo ad Alba? Come accontentarlo tutte le volte che esprimeva il desiderio di restare con me ed Ileana a Torino? C’era qualcosa che potevo proporgli senza il rischio di illuderlo? Mi potevo limitare a dirgli che tra poco sarebbe andato in un “bel” posto, a Villa Ottavia, dove avrebbe fatto tante “belle” nuove esperienze?
In questo clima di grave incertezza trascorse anche marzo. E poi aprile. L’inquietudine di Gabriele cresceva e facevo sempre più fatica a gestirla. Nessuno mi dava una mano, a cominciare dai medici del Ferrero. Se in modo del tutto fortuito incontravo l’assistente sociale e chiedevo del perché la nuova struttura non era ancora funzionante, a distanza di più di sessanta giorni da quanto previsto, la risposta rimandava a imprecisati “ritardi nella concessione di alcune autorizzazioni”. Perché non comunicare direttamente con le famiglie? Perché sottovalutare, se non addirittura ignorare, gli stati d’animo di tante persone che attendevano con ansia di ricevere notizie confortanti per i loro figli?
Come si conciliava questo stretto riserbo con il contenuto dell’art. 6 della cosiddetta carta dei “Diritti e doveri dell’ospite”, che affermava: “L’ospite e i suoi familiari hanno il diritto di essere informati sulla possibilità di indagini e trattamenti alternativi, anche se eseguibili in altre strutture”?
In compenso era iniziato un frenetico tourbillon di educatori, ne vedevo di nuovi tutte le volte che mi recavo ad Alba. Anche questa circostanza rappresentava la conferma di un certo pressappochismo: possibile che questi signori non valutassero le conseguenze negative che hanno i ripetuti cambiamenti sugli autistici? Su persone che, invece, avrebbero bisogno di essere aiutate a capire organizzando per loro un mondo strutturato e prevedibile, una guida chiara e comprensibile? Altro che l’anarchia irresponsabile di chi, ignorando completamente questa loro necessità primaria, rendeva del tutto disordinato e senza regole l’ambiente, anticipando comportamenti difficilmente controllabili…
A cosa serviva togliere Gabriele da quel caos se poi tutto si ripeteva come prima? Che senso aveva provare a farlo rilassare a casa se poi ripiombava nell’inferno?
Una volta avevo insistito perché portasse con sé due cassette di De Andrè, che gli avevo appena registrato. Fabrizio De Andrè era uno degli autori che più piacevano a Gabriele, lo ascoltava sempre con interesse. Mi aveva sconvolto vederlo arrivare, una settimana dopo, con quelle stesse cassette letteralmente spaccate a metà, frantumate da qualcuno che non aveva trovato di meglio che vederlo piangere, così come piangeva quando le aveva mostrate a me, distrutto, rassegnato. Povero Gabriele, cosa posso fare per te? E soprattutto: c’è ancora qualcosa che posso fare?
Puntualmente i miei timori trovarono una prima conferma. Un giorno, in maniera del tutto inattesa, Gabriele – mentre era in macchina con me – fu colto da un’improvvisa crisi di pianto, preceduta da un interminabile “nooooh” e da un battere frenetico dei pugni contro il parabrezza dell’auto.
Non riuscivo a calmarlo, avevo paura che potesse succedere qualcosa di più grave, ero preparato al peggio. Speravo soltanto di arrivare fino a casa ma c’era ancora un quarto d’ora di strada, forse troppo. Per fortuna, bruciando qualche semaforo rosso, arrivai a destinazione e Gabriele, come d’incanto, si calmò!
Il suo era stato un evidente segnale di rifiuto, l’ennesimo, ad accettare la realtà cui pareva condannato. Quand’è che finalmente ne avremmo tenuto conto?
Non avevo una risposta a questo domanda, nessuno mi aiutava a darla. Ero solo, dannatamente solo!
Non restava che stringere i denti e confidare nell’apertura della nuova struttura, perché soltanto un intervento mirato poteva, a questo punto, attenuare le difficoltà di Gabriele.
Le settimane trascorsero, invece, nel più deprecabile silenzio finché una sera fui raggiunto da una telefonata. “Suo figlio ha avuto una grave crisi epilettica. Ha battuto la faccia contro il pavimento e si teme la frattura del setto nasale. Stanno eseguendo le radiografie.”. Li avrei strozzati, ma che senso aveva questo pensiero? Significava soltanto ammettere che non avevo più nulla da dire… Forse era vero ma, adesso, occorreva in ogni caso sapere, fare qualcosa. Si inventarono una domanda provocatoria:
“Vuol pensarci lei? Desidera portare suo figlio in un ospedale di sua fiducia?”. Mi parve solo un atto di vero e proprio cinismo: perché da febbraio nessuno si era fatto vivo? Perché ora, solo ora, si erano degnati di comporre un numero di telefono per comunicarmi che Gabriele aveva riportato una sospetta frattura? Che pena!
In ogni caso era pensabile che mi mettessi in macchina alle sette di sera per andare ad Alba, e riprendermi Gabriele in quelle condizioni? Ritenni di no e risposi che sarei arrivato all’indomani mattina, dal momento che avrebbe dovuto sottoporsi alle analisi di rito in vista del successivo probabile intervento. Non mi fu possibile parlare direttamente con Gabriele, né ricordo la ragione.
Alle otto del mattino eccomi al primo piano dell’ospedale S. Lazzaro di Alba, dove si trova il reparto di otorino laringoiatria. Gabriele non mi aspettava, lo vidi da lontano seduto su un’anonima panchina insieme a Franca, un’infermiera del Centro. Aveva lo sguardo del tutto assente, perduto chissà dove.
Lo chiamai, fu come se avesse ricevuto uno schiaffo. Abbandonò istantaneamente la panchina e mi corse incontro. A parte l’evidente deformazione del naso notai un vasto ematoma all’altezza dell’occhio sinistro. Poi mi raggiunsero le sue parole: “Come quella volta a Chivasso…”. Eh già: Chivasso, qualche anno prima, un altro incidente, un altro ospedale, sempre io e lui… Che destino infame!
Riuscii solo a dirgli: “Coraggio, passerà anche stavolta se sarai forte”. Un minuto dopo lo chiamarono per il prelievo del sangue e lui entrò attraverso una porta che rimase socchiusa. Sdraiato su un lettino lo sentii ripetere insistentemente: “Di là c’è papà, è venuto papà. Non sono solo…”. Eccolo fuori. Poco dopo dovette andare a fare l’elettrocardiogramma e nell’attesa Franca mi confermò che le radiografie avevano accertato la frattura del setto nasale. Gli esami furono finiti ed io dissi all’infermiera che Gabriele sarebbe rimasto con me durante l’intera mattina, dal momento che non era in condizioni di tornare a Torino.
Passeggiavamo e le sue braccia erano stabilmente avvinghiate attorno al mio collo; non potevo non notare quanto Gabriele fosse rimasto traumatizzato dalla caduta. Si interrompeva spesso mentre tentava inutilmente di ricostruire l’accaduto, era come se all’improvviso gli si spegnesse la luce. Ci teneva, però, a riprendere il discorso, e provava a concluderlo nonostante tentassi in tutti i modi di parlare d’altro. Inutile.
Più tardi andammo al ristorante, alla fine mi chiese di fare un giro in macchina e naturalmente lo accontentai, anche perché aveva cominciato a piovere. Lungo la strada ebbi la sensazione che dalla sua bocca uscisse la parola “scuola”, ma non ne fui sicuro. E invece poco dopo la ripeté, questa volta in maniera più chiara. “Lì è la mia scuola”.
Rallentai, più per curiosità che per altro. Ecco: quella fu la prima volta che vidi dov’era la scuola che frequentava Gabriele!
Accostai la macchina. Scesi. Sul muro c’era una targa: “Agenzia di formazione professionale”. Non avrei mai creduto che sarebbe stato Gabriele a indicarmene l’ubicazione. Mai nessuno, in due anni, aveva pensato di mettersi in contatto con me, con il padre di Gabriele. Semplicemente vergognoso!
Tornammo in istituto, si avvicinava il momento più difficile. Dovevo lasciarlo con quello stato d’animo di infinita tristezza, due giorni dopo era previsto l’intervento. Lo accompagnai in infermeria perché Franca avrebbe dovuto somministrargli una medicina, poi Gabriele sarebbe andato a riposarsi nella sua stanza al terzo piano.
Forse poteva farlo da solo ma fui vinto, ancora una volta, dalla paura e decisi di accompagnarlo, di salire le scale con lui. Giunti al primo piano udimmo un urlo così terrificante da farmi letteralmente raggelare il sangue. “E’ Agostino”, disse Gabriele, “fa spesso così, non preoccuparti”!
Fu a me che mancò il coraggio di continuare a salire le scale; fosse stato per Gabriele sarebbe andato avanti, anche se Agostino continuava ad urlare come un ossesso. Tornammo in infermeria, pregai Franca di far intervenire un educatore. Pochi minuti dopo Gabriele risalì con Lorenzo ma quell’urlo lacerante io continuo ancora adesso ad ascoltarlo. E mi chiedo: “Che vita è questa?”.
Senza avere la forza di darmi una risposta!
Gianfranco Vitale
© Autismo Italia onlus