
INFORMAUTISMO N° 3 - ANNO 2002, settembre-dicembre
IL SONNO DELLA RAGIONE GENERA MOSTRI…(di Donata Vivanti)
NEGLI ULTIMI ANNI QUALCOSA E’ CAMBIATO NELLA CULTURA DEL NOSTRO PAESE SULL’AUTISMO. MA NON ABBASTANZA. DA DOVE NASCONO I PREGIUDIZI, E PERCHE’ SONO COSI’ DURI A MORIRE?
Se lo raccontate agli anglosassoni, non ci credono.
Eppure è vero: in Italia la maggior parte dei neuropsichiatri infantili, e dei medici, neurologi compresi, pensa ancora che la causa dell’autismo sia la famiglia.
Anzi, sfidando il ridicolo, molti addirittura credono ancora alla favoletta della “madre frigorifero”, che con la sua freddezza causerebbe il ritiro del bambino in un suo mondo irraggiungibile. La caccia alle streghe è sempre di moda. La ragionevolezza molto meno. Con buona pace della medicina basata sull’evidenza.
Ma da dove viene questa assurda credenza?
Già Kanner, il primo a descrivere, nel 1943, la sindrome autistica a partire dall’oservazione di 11 suoi piccoli pazienti che presentavano caratteristiche comuni, parlò di un disturbo presumibilmente congenito.
Ma commise due errori. Chiamò quel disturbo “autismo”, utilizzando un termine già usato in psichiatria per indicare un sintomo della schizofrenia, il ripiegamento su se stessi che si osserva nelle psicosi.
Quello stesso nome, per assonanza e cultura, suggeriva un movente in realtà mai verificato dell’autismo: che, appunto, sia dovuto ad un ritiro dalla realtà, ad un rifiuto di pulsioni e desideri. Poi osservò che la maggior parte dei genitori di quei bambini appartenevano a classi sociali elevate. Un’osservazione neutra in apparenza, e ovviamente dovuta al fatto che solo famiglie abbienti potevano permettersi di affrontare un viaggio a quei tempi faticoso e costoso fino a Filadelfia, e di pagare la parcella di uno psichiatra famoso come Kanner già era. Ma, a quei tempi, l’equazione madre ricca e colta (e quindi, presumibil-mente, indipendente e poco incline ad accettare passiva-mente il ruolo dell’angelo del focolare) = madre snaturata era quasi d’obbligo. Come se non bastasse, la relazione di quelle madri “sospette” con i loro bambini appariva anomala, distante, e non sembrava essersi sviluppata quella normale empatia, quell’intesa profonda che di regola si osserva fra madre e bambino. Perché queste osservazioni abbiano poi avuto, nella storia dell’autismo, più peso dell’ipotesi di un disturbo congenito, resta un mistero.
E pensare che l’anno dopo, senza conoscere l’articolo di Kanner, Hans Asperger, un pediatra viennese, descriveva gli stessi sintomi in un gruppo di suoi piccoli pazienti. Anche Asperger parlava di madri “inadeguate”, di padri “ eccentrici”, ma attribuiva questi aspetti della personalità dei genitori allo stesso disturbo del figlio presente in forma più attenuata. E ne ipotizzava un’origine genetica.
E addirittura già individuava nella pedagogia speciale l’intervento più adatto a favorire la normale crescita di quei bambini.
Ma la genetica è materia complicata, e non se ne può dissertare senza applicazione, studio e competenza. E allora, meglio filosofeggiare sull’inadeguatezza delle madri, meglio lavorare di fantasia, una dote che certo non manca ai nostri luminari, e accreditare la tesi rassicurante dell’onnipotenza dell’uomo sull’uomo e sulla natura.
L’infelice Bettelheim, sopravvissuto ai campi di concentra-mento, ma evidentemente assai provato nella mente (tanto da morire poi suicida) assimilò il comportamento caratteristico dell’autismo all’annientamento spirituale che aveva potuto osservare nelle vittime della brutalità nazista.
E coniò appunto il famigerato termine di “madri frigorifero” per indicare le scellerate incapaci di stabilire una relazione affettiva con il figlio, causa, al pari degli aguzzini dei campi, della sua rovina.
L’onnipotenza, si sa, ha un grande fascino, e invece di suscitare la pietà e la comprensione dovuta a chi porta nella mente il marchio di sofferenze indicibili, Bettelheim generò uno stuolo di epigoni che imbastirono sulla base delle sue deliranti allucinazioni la vergognosa storia delle ipotesi e delle terapie dell’autismo.
Eppure proprio fra gli allievi di Bettelheim ci fu chi, di fronte a madri così preoccupate per il proprio bambino da cercare con ogni mezzo e con tutte le proprie risorse qualcuno che potesse aiutarlo, capì l’irragionevolezza delle ipotesi del maestro, e iniziò quelle ricerche e quel percorso che cambiarono nel mondo anglosassone la concezione dell’autismo già nei primi anni ’70.
Schopler negli Stati Uniti e Rutter nel Regno Unito, negli stessi anni dimostrarono inconfutabilmente con ricerche ineccepibili che l’affettività dei genitori di bambini autistici non differiva in alcun modo da quella dei genitori di bambini colpiti da altre forme di disabilità.
E, confortati dai dati della ricerca epidemiologica e neuro-biologica, che confermavano univocamente l’origine organica dell’autismo, iniziarono a tracciare percorsi di riabilitazione psico-educativa che dimostrarono nel tempo di poter determinare quei miglioramenti che la psicoterapia psico-analitica purtroppo non era in grado di produrre.
Perché allora una ipotesi dimostratasi irragio-nevole continua a essere insegnata nelle nostre Università e a sopravvivere nella nostra cultura ?
Innanzi tutto, perché l’irrazionale seduce assai più della fatica quotidiana. I trattamenti comportamentali e cognitivo-comportamentali, logica conseguenza della concezione neurobiologica dell’autismo, richiedono un lavoro di rete, il coordinamento di diverse figure professionali, e la conoscenza approfondita di una vasta materia: dai test di diagnosi e valutazione funzionale alle strategie di intervento, alla codifica delle procedure. Sicchè alcuni prescrivono la psico-terapia al bambino in mancanza della possibilità di costruire un percorso abilitativo complesso e di dare altre risposte più adeguate.
Ma molti, benchè raramente osino ormai accusare apertamente, prescrivono ancora come unico trattamento la psico-terapia psicanalitica alla madre o alla coppia, come se il problema non fosse, purtroppo, nel bambino, ma nella testa e nel vissuto dei genitori.
I genitori conoscono bene quel tono inquisitorio che tende a mettere in luce le loro mancanze, quel modo di raccogliere l’anamnesi che indaga i loro sentimenti e il loro stile di vita, piuttosto che le difficoltà del bambino.
Noi stessi ne abbiamo una parte di responsabilità.
Perché la concezione neurobiologica dell’autismo non prevede miracoli, ed è difficile accettare un verdetto senza appello. Quando il bambino è in tenera età, miglioramenti sostanziali che un trattamento coerente con la cono-scenza può dare nel corso della vita appaiono una lontana astrazione, il percorso della riabilitazione un tunnel senza luce.
E proprio perché quel bambino lo amiamo, più di ogni altra cosa al mondo, l’accusa ci spaventa molto meno di una sentenza senza appello, e ciò che desideriamo, con tutte le nostre forze, è che il bambino diventi o torni ad essere come tutti gli altri.
Del resto noi mamme non abbiamo bisogno di essere accusate per sentirci in colpa, e l’illusione di essere la causa dei disturbi del bambino implica il potere consolatorio di avere in mano il potere della sua salvezza.
Altri professionisti poi continuano a credere nella terapia psicanalitica come ad una fede, e non si arrendono all’evidenza, come se dovessero mettere in discussione l’esistenza di Dio. E si accaniscono contro metodiche che definiscono addestramenti, attribuendo invece alla terapia della parola capacità taumaturgiche. Così, incedibilmente, il destino di un bambino può dipendere dall’abilità dialettica di chi dovrebbe innanzi tutto garantirgli l’intervento che ha dimostrato migliori risultati piuttosto che dalla sua competenza.
Un noto neuropsichiatra infantile, persona peraltro di grande cultura e di brillante intelligenza, sostiene che gli “stranieri” non ne sanno sull’autismo più di noi, e che nel nostro paese l’intervento non dovrebbe prescindere dalle nostre tradizioni.
Come se stessimo parlando di cucinare la pizza o la pommarola. Dimenticando che la scienza non ha confini, che nessuno al mondo come la persona con autismo è uguale ai suoi simili, al di là dell’influenza culturale del proprio paese, e che, come tutti i medici, anche i neuropsichiatri infantili hanno giurato di agire sempre nell’interesse del paziente, secondo scienza e coscienza.
Perfino gli infelici bambini abbandonati negli orfanotrofi - lager della Romania, che svilupperebbero in alta precentuale i sintomi dell’autismo, invece di mobilitare le forze necessarie a lenire le loro sofferenze, vengono usati per dimostrare, quasi fosse una vittoria, che l’autismo può essere psicogeno. Senza disporre di dati precisi né sul numero, né sulla sintomatologia, senza sapere in che condizioni di salute e di degrado vivevano le povere madri che li hanno partoriti. In pratica, in quei bambini si sono riprodotti gli effetti che Bettelheim aveva osservato nei lager nazisti.
E la storia ricomincia come un ossessivo ritornello, che racconta come una madre che ha tanto desiderato il figlio in realtà, inconsciamente, non lo desiderava affatto e lo ha rifiutato, o che tornando a lavorare, lo ha traumatizzato fino a causare una sindrome da abbandono.
Ci avete mai pensato? Se davvero queste storie avessero una pur minima credibilità, sarebbe assurdo che le vittime di simili madri snaturate, capaci di causare ai propri figli sofferenze degne di un lager, non vengano prontamente allontanate dalla famiglia, quando perfino la povertà estrema viene ritenuta un motivo sufficiente per togliere un bambino alle cure dei genitori.
La cultura psicogenetica dell’autismo purtroppo non rappresenta solo un’ingiustizia nei confronti dei genitori, accusati di essere responsabili della disabilità del proprio bambino, con gravi conseguenze per la serenità e l’equilibrio di tutta la famiglia, compresi i figli, autistici e non.
Ma ha soprattutto la grave responsabilità di rifiutare un aiuto concreto al bambino con autismo in attesa di improbabili “ risvegli”, di paralizzare le iniziative educative dei genitori, di negare il buon senso, di abbandonare il bambino al caos e la famiglia alle lusinghe dei mercanti di illusioni. Per poi magari indignarsi perché i genitori, in mancanza di risultati, si affannano a inseguire la speranza in approcci altrettanto improbabili.
Non c’è da stupirsi se quegli stessi genitori che all’inizio hanno sperato nella propria colpevolezza reagiscano poi con una totale sfiducia non solo nei confronti dell’accusatore e delle sue dottrine, ma anche nei confronti di quella scienza che ha dimostrato di poter dare risposte assai più efficaci.
Ma questa è un’altra storia, e ne parleremo nel prossimo numero.
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